mercoledì 29 aprile 2020

The Well – 24.01.2020 – Cascina Bellaria Rural Music Club! (Sezzadio, AL)


The Well – 24.01.2020 – Cascina Bellaria Rural Music Club! (Sezzadio, AL)

Me li ricordavo più pelosi i The Well. Più barba (il chitarrista), capelli più lunghi (la bassista), melodie più ispide. E’ passato quasi un anno e mezzo dal concerto all’Albatross, e stasera i tre dimostrano di aver spazzolato via un po’ di polvere dal loro doom, pettinato con cura le melodie e dato un tocco di colore all’atmosfera. La band di Austin, la cui particolarità è sempre stata quella di abbinare una componente sognante al mood da cripta sotterranea dei primi Black Sabbath, stasera mi spiazza per aver colorato così tanto le mura della catacomba. L’intreccio luccicante delle voci contrasta con l’oscurità dei riff, che però non hanno perso un pelo dei loro tipici fuzz e groove: ma forse è proprio questa stridente contraddizione a rendere ancor più particolare la loro musica. Con il trascorrere del concerto, mi accorgo che ciò che è cambiato è l’atmosfera all’interno della tomba. La volta precedente, grazie ad un continuo richiamo a melodie orientali, avevo l’impressione di esser finito nei sotterranei di una piramide: caldi, soffocanti, con una maledizione che aleggiava al loro interno.
Adesso invece sono dentro una tomba di marmo splendente. Una tomba di marmo rosa, ma pur sempre una tomba. E devo ammettere che queste superfici brillanti si abbinano perfettamente all’immediatezza delle loro canzoni! Stasera i The Well hanno creato una versione onirica del doom metal, con atmosferee più soffuse ed eteree, e non solo grazie alla voce di Lisa Alley.
[R.T.]
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The Well – 01.24.2020 – Cascina Bellaria Rural Music Club! (Sezzadio, AL)

The Well. I remembered them definitely more hairy. More beard (the guitarist), longer hair (the bassist), more bristly melodies. Almost a year and a half has passed since their concert at Albatross, and tonight the three show that they have brushed some dust off their doom, carefully combed the melodies and given a touch of colour to the atmosphere. The band from Austin, one of whose main feature has always been that of combining a dreamy component with the underground crypt mood of the first Black Sabbath, tonight floors me for having coloured the walls of the catacomb so much. The shimmering intertwining of the voices contrasts with the darkness of the riffs, which however have not lost their typical fuzz and groove: but perhaps it is precisely this clashing contradiction to make their music even more unique. As the concert goes by, I realize that what has changed is the atmosphere inside the tomb. Last time, thanks to a continuous reference to oriental melodies, I had the impression of having ended up in the basement of a pyramid: hot, suffocating, with a curse hovering inside it. Now, instead, I'm inside a shining marble tomb. A pink marble tomb, but still a tomb. And I must admit that these brilliant surfaces perfectly match the immediacy of their songs! Tonight The Well have created a dreamlike version of doom metal, with more suffused and ethereal atmospheres, and not only thanks to Lisa Alley's voice.
[R.T.]

domenica 26 aprile 2020

Cult of Luna – A Dawn to Fear


Cult of Luna – A Dawn to Fear
(Metal Blade, 2019)

Per anni ho ascoltato musica, letto libri e guardato film di fantascienza distopica, consapevole che questa possedesse una capacità d’analisi della realtà e dei suoi possibili sviluppi futuri. Ma, sinceramente, finché la vita quotidiana non si è trasformata nella sceneggiatura di un film di John Carpenter - o David Cronenberg - e non ha assunto le atmosfere apocalittiche dei dischi di Neurosis, Isis o Cult of Luna, non pensavo che tutto questo potesse realizzarsi in modo letterale. Essendosi dimostrate quasi premonitrici, le riflessioni e gli interrogativi sollevati da questi visionari necessitano più che mai, proprio adesso, di essere ascoltate. Così immergersi nei quasi 80 minuti di A Dawn to Fear, ultimo disco dei Cult of Luna, non è solo catartico, ma proprio formativo. “Il cielo sopra il porto era del colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto”. Così inizia il Neuromante di William Gibson, e con questa atmosfera si apre il disco. Messe parzialmente da parte le visioni spaziali di Vertikal e Mariner, la band svedese crea un universo grigio fatto di riff di cemento armato, dissonanze metalliche e ampie vetrate che osservano una città deserta. Una città che si affaccia sul mare - talvolta tempestoso, talvolta così calmo da sembrare in attesa della bufera. Nel perfetto equilibrio tra potenza esplosiva e contemplazione malinconica, tra oppressione insostenibile e speranza di riscatto, sta lo splendore di questo album. Non un concept album, a discapito dell’organicità narrativa dell’insieme, ma otto lunghe riflessioni su una realtà oscura e sul desiderio bruciante di affrontarla in modo attivo, senza farsi travolgere da essa. Una delle opere più affascinanti della band, e indubbiamente una delle più attuali. “We break the silence with our heartbeats”.
[R.T.]
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Cult of Luna – A Dawn to Fear
(Metal Blade, 2019)

For years I've been listening to music, reading books and watching dystopian science fiction movies, aware that these possessed an ability to analyze reality and its possible future developments. But honestly, until everyday life turned into the script of a John Carpenter's - or David Cronenberg's - movie and took on the apocalyptic atmospheres of Neurosis, Isis or Cult of Luna records, I didn't think all this could become literally real. Having proved almost premonitory, right now the reflections and questions raised by these visionaries need more than ever to be listened to. So, diving into the almost 80 minutes of A Dawn to Fear, Cult of Luna latest album, is not only cathartic, but really formative. "The sky above the port was the color of television, tuned to a dead channel". This is how William Gibson's Neuromancer begins, and with this atmosphere the album opens itself. Partially put aside the space visions of Vertikal and Mariner, the Swedish band creates a gray universe made of reinforced concrete riffs, metallic dissonances and large windows staring at a deserted city. A city overlooking the sea - sometimes stormy, sometimes so calm that it seems to be waiting for the storm. In the perfect balance between explosive power and melancholy contemplation, between unsustainable oppression and hope of liberation, there lies the splendor of this album. Not a concept album, at the expense of the narrative organicity of the whole, but eight long reflections on a dark reality and the burning desire to face it actively, without being overwhelmed by it. One of the most fascinating works of the band, and undoubtedly one of the most current. “We break the silence with our heartbeats”.
[R.T.]

martedì 21 aprile 2020

Bologna Violenta – 11.01.2020 – Freakout Club (Bologna)


Bologna Violenta – 11.01.2020 – Freakout Club (Bologna)

Quando ero piccolo provavo attrazione e repulsione per un’enciclopedia medica dei miei genitori. Guardare quelle foto di malformazioni fisiche era tanto disturbante quanto magnetico. La musica di Bologna Violenta ha su di me più o meno lo stesso effetto. Mi sento sporco ad ascoltarla, ma non posso farne a meno. Soprattutto quando racconta storie reali come quelle della Uno Bianca. Una storia drammatica e terribile, che ha stroncato la vita di decine di persone (e delle loro famiglie) e terrorizzato un paese intero. Ma anche una storia folle, surreale e grottesca, perversamente affascinante. Ascoltare Nicola Manzan che esegue interamente il disco dedicato a quel capitolo nero della storia italiana, proprio in quella Bologna che fu uno dei teatri principali degli eventi, è per me imperdibile. Da solo, sul palco del Freakout, Manzan trasforma le smitragliate dei fratelli Savi in assalti cybergrind. Fughe a velocità folle, auto che inchiodano, inversioni con gomme che stridono, fucilate nella folla ed esecuzioni glaciali. Tutto con una chitarra sparata a mille, accompagnata da drum machine e sampler. Agghiaccianti videoproiezioni raccontano il delirio dei tre fratelli. I rintocchi di una campana per ogni persona uccisa lasciata sulla strada, in una pozza di sangue, rendono il racconto musicale ancor più spaventoso. E’ quando Manzan ripone la chitarra per il violino che il dramma e la sofferenza delle vittime, prima suggeriti, diventano espliciti. L’omaggio che la città di Bologna tributa ai carabinieri uccisi nel gennaio del 1991, o il suicidio del padre dei Savi, vinto dalla vergogna, sono i momenti più toccanti. Momenti nei quali si palesa l'umanità in questa storia di violenza insensata.

Estratti per lo più da Il nuovissimo mondo, i racconti paradossali del bis alleggeriscono la tensione nonostante la musica pesti sempre come il batticarne di un macellaio impazzito e gli schizzi di sangue mi finiscano sempre negli occhi, anzi, negli orecchi. Ma ora siamo di fronte ad un Mondo Movie, un documentario di efferatezze e assurdità che giocano tra realtà e fantasia (perversa).

Quel che rimarrà memorabile di questo concerto sarà una storia di questa città. Una storia raccontata attraverso l’immane ferocia degli assassini, ma al tempo stesso anche attraverso il dolore delle vittime, e il disgusto e la paura di una comunità sconvolta dall’assurdità del male.
[R.T.]
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Bologna Violenta – 01.11.2020 – Freakout Club (Bologna)

When I was a child, I felt attraction and repulsion for my parents' medical encyclopedia. Looking at those photos of physical malformations was as disturbing as magnetic. Bologna Violenta music has more or less the same effect on me. I feel dirty listening to it, but I can't help it. Especially when it tells real stories like those of the Uno Bianca. A dramatic terrible story, which has killed dozens of people (and their families) and terrified an entire country. But also a crazy, surreal and grotesque story, perversely fascinating. Listening to Nicola Manzan who entirely performs the album dedicated to that black chapter of Italian history, precisely in Bologna which was one of the main theaters of the events, is unmissable for me. On the Freakout stage, Manzan transforms the Savi brothers' machine-gun fires into cybergrind assaults. Escapes at insane speed, cars slamming on the breaks, u-turns with screeching tires, shots in the crowd and glacial executions. All this with a shooting guitar, accompanied by drum machines and samplers. Dreadful video projections tell the delusion of the three brothers. The rings of a bell for each killed person left on the road, in a pool of blood, makes the musical story even more frightening. It is when Manzan puts away the guitar for the violin that the drama and suffering of the victims, previously suggested, become explicit. The tribute that the city of Bologna pays to those carabinieri killed in January 1991 and the suicide of Savi's father (overcome by shame) are the most touching moments. Moments in which humanity reveals itself in this story of senseless violence.

Mostly extracted from Il nuovissimo mondo, the paradoxical tales of the encore relieve tension despite the music always pounds like the meat mallet of a crazy butcher and the splashes of blood always end up in my eyes, indeed, in my ears. But now we are facing a Mondo Movie, a documentary of brutality and absurdity playing between reality and (perverse) fantasy.

What will remain memorable of this concert will be a story of this city. A story told through the immense ferocity of the killers, but at the same time also through the pain of the victims, and the disgust and fear of a community devastated by the absurdity of evil.
[R.T.]

sabato 18 aprile 2020

La morte viene dallo spazio – 02.01.2020 – Officina Giovani (Prato)


La morte viene dallo spazio – 02.01.2020 – Officina Giovani (Prato)

Il 2020 si presenta con oscuri presagi. Un'astronave aliena viene a portarci una musica fatta di "cattive" vibrazioni e il primo concerto dell'anno, con il senno di poi, sembra un messaggio in codice non ascoltato, così come ignorate erano le profezie di Cassandra. 

La psichedelia oscura ed esoterica de La morte viene dallo spazio nasce in quelle galassie in cui fluttuavano i corrieri cosmici tedeschi dei primi anni '70. Ma lungo il suo percorso, prima di raggiungere il nostro pianeta, incontra anche i deliri degli Hawkwind e di certo post punk lisergico. Gli occhi di ghiaccio di Melissa Crema sono ipnotici così come la musica creata dalla sua band, che stordisce con i suoi tempi dilatati e la sua forma fluida e cangiante. Un flauto ci guida, come fossimo i bambini della fiaba dei fratelli Grimm, attraverso onde di chitarra (affidata a Stefano Basurto dei Giöbia) e disturbi magnetici creati dal theremin, tra sconfinati deserti di droni e aurore boreali. Meravigliosi e spaventosi al tempo stesso, i pianeti sconosciuti verso i quali siamo condotti sembrano provenire da un episodio di Star Wars o, più precisamente, da un surreale B-movie fantascientifico degli anni '50-'60 (come quello che ha dato il nome alla band). 

Quella sera ho assistito all'esecuzione della colonna sonora di un film immaginario oppure si è  trattato di un vero e proprio avvertimento, un messaggio criptato che al tempo non ero riuscito a cogliere?
[R.T.]

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La morte viene dallo spazio – 01.02.2020 – Officina Giovani (Prato)

Year 2020 presents itself with dark omens. An alien spaceship comes to bring us a music made of "bad" vibrations and the first concert of the year, with the benefit of hindsight, seems an unlistened coded message, just as Cassandra's prophecies were ignored.

La morte viene dallo spazio's dark and esoteric psychedelia was born in those galaxies in which the German cosmic couriers of the early 70s used to float. But along its way, before reaching our planet, it also encounters Hawkwind's delusions as well as those of certain post-lysergic punk. Melissa Crema's icy eyes are hypnotic as well as the music created by her band, which stuns with its dilated tempo and its fluid and iridescent shape. A flute guides us, as if we were the children of the Grimm brothers' fairy tale, through guitar waves (entrusted to Stefano Basurto from Giöbia) and magnetic disturbances created by the theremin, among boundless deserts of drones and northern lights. Wonderful and scary at the same time, the unknown planets to which we are led seem to come from a Star Wars episode or, more precisely, from a surreal sci-fi B-movie of the 50s-60s (like the one that gave the name to the band).
That night I attended the execution of the soundtrack of an imaginary movie or was it a real warning, an encrypted message that at the time I was unable to catch on?
[R.T.]

martedì 14 aprile 2020

Chelsea Wolfe – Birth of Violence


Chelsea Wolfe – Birth of Violence
(Sargent House, 2019)

Esporsi, senza più nascondersi dentro ad una nuvola di rumore, è un atto di coraggio. Così come percorrere in solitaria le strade più buie del folk americano, attraversate nel tempo da uomini in nero, ormai leggende del rock statunitense. Ma il coraggio è un attributo che non manca a Chelsea Wolfe. Così, con la sua voce eterea protetta esclusivamente dalla chitarra acustica e sostenuta solo da arrangiamenti soffusi, si inoltra lungo una Route 66 intima e personale, che ha come meta l’universale. Il punto di partenza di questo cammino si trova sulle montagne del Nord della California, dove - lontana dai bagliori e dal caos della sua Sacramento - Chelsea ha trovato la solitudine e il silenzio necessari per concepire le canzoni di Birth of Violence. Sono proprio l’energia e la spiritualità della natura a consentire i primi passi del percorso attraverso i paesaggi umbratili e nebbiosi della società americana e, in particolare, attraverso lo squilibrio tra uomo e donna. Per quanto anche in versione elettrica la musica di Chelsea Wolfe suoni intima, era necessario un disco acustico, nudo, libero da scosse elettriche e da scorie industriali, per risvegliare l’energia femminile nascosta in questa musicista e riconnetterla a Madre Natura. Un viaggio tipicamente americano alla ricerca della spiritualità della natura selvaggia.
[R.T.]
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Chelsea Wolfe – Birth of Violence
(Sargent House, 2019)

Showing yourself, without hiding inside a cloud of noise, is an act of courage. As well as travelling by yourself through the darkest streets of American folk, crossed over time by men in black, now legends of the American rock. But courage is an attribute that is not lacking in Chelsea Wolfe. So, with her ethereal voice protected exclusively by the acoustic guitar and supported only by suffused arrangements, she advances along an intimate and personal Route 66, which has got the universal as its ultimate goal. The starting point of this journey is among the mountains of Northern California, where - far from the glares and chaos of her Sacramento - Chelsea found the solitude and silence necessary to conceive the songs of Birth of Violence. Precisely the energy and the spirituality of nature are the forces that allow the first steps of the journey through the shady and misty landscapes of American society and, in particular, through the imbalance between man and woman. Although Chelsea Wolfe's electric version also sounds intimate, ther was the need of an acoustic naked album, free from electric shock and industrial slags, to awaken the female energy hidden in this musician and reconnect her to Mother Nature. A typically American journey in search of the spirituality of wild nature.
[R.T.]

sabato 11 aprile 2020

Inter Arma – Sulphur English


Inter Arma – Sulphur English
(Relapse Records, 2019)

Stavo ascoltando Sulphur English nell’autoradio quando ad un tratto la batteria dell'auto si è esaurita, e tutto è svanito nel silenzio. Probabilmente la musica degli Inter Arma possiede una forza centripeta in grado di risucchiare l’energia. L’ultimo album della band del Virginia è un vortice magnetico che aspira le fiamme dell’inferno e le comprime in un globo di materia oscura simile alla merda di Mordicchio: densissima e pesantissima, vero e proprio carburante per astronavi. Se riuscissi a invertire il processo e a rigenerare l’energia contenuta nel cd, la mia auto si riaccenderebbe come il Millennium Falcon pronto a saltare nell’iperspazio. Ma non è possibile risalire le spirali discendenti degli arpeggi dissonanti e dei ritmi tribali. Inevitabile cadere sempre più in profondità, spesso deragliando dai binari sghembi dei blast beat impazziti. Raggiunte poi le profondità abissali della materia oscura, la musica fluttua morbida nel vuoto spaziale, guidata dalla voce darkwave di Mike Paparo, e non c’è più alcuna traccia dei riflessi colorati e progressivi, da aurora boreale, di Paradise Gallows. E’ solo buio che attende di essere illuminato dai bagliori delle fiamme, giganteschi incendi di distorsione. Come se i Neurosis degli anni '90 contemplassero le fiamme appiccate da un Varg Vikernes sotto acido, e i Morbid Angel di Domination cercassero di spegnerle con colate di fango. Dal nucleo profondo in cui si raccoglie tutta l’energia sottratta all’Universo (e alla mia auto) non è più possibile fuggire.
[R.T.]
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Inter Arma – Sulphur English
(Relapse Records, 2019)

I was listening to Sulphur English on the car radio when all of a sudden the battery of the car ran out, and everything vanished into silence. Inter Arma's music probably has got a centripetal force capable of sucking in energy. The latest album by the band from Virginia is a magnetic vortex that sucks the flames of hell and compresses them into a dark matter globe similar to Nibbler's shit: extremely dense and heavy, a fuel for spaceships. If I could reverse the process and regenerate the energy contained in the CD, my car would turn on again like the Millennium Falcon ready to jump into hyperspace. But it is not possible to climb back the descending spirals of dissonant arpeggios and tribal rhythms. It is inevitable to fall deeper and deeper, often derailing from the skew tracks of the crazy blast beats. Reached the abyssal depths of dark matter, music floats soft in the space void, guided by Mike Paparo darkwave voice, and there is no trace of the colourful and progressive reflections, typical of aurora borealis, of Paradise Gallows. It is only darkness that awaits to be illuminated by the glow of the flames, gigantic fires of distortion. As if Neurosis of the 90s era contemplated the flames set by a doped Varg Vikernes, and the Morbid Angels of Domination were trying to put them out with mudslides. From the deep core where all the energy taken from the universe (and my car) is collected, it is no longer possible to escape.
[R.T.]

martedì 7 aprile 2020

Earth + Helen Money – 23.11.2019 – TPO (Bologna)


Earth + Helen Money – 23.11.2019 – TPO (Bologna)

In questo momento di stasi mi viene naturale ascoltare la musica degli Earth. Una musica in cui il tempo pare sospeso, ma in realtà scorre così come scivolano due placche tettoniche prossime all’impatto. Dopo, il pianeta non sarà più lo stesso. E viene naturale pensare al loro concerto di fine 2019.

Helen Money prepara l’atmosfera di un TPO in versione ridotta, decisamente più accogliente e con suoni più convincenti rispetto alla serata in cui furono gli Sleep a salire sul suo palco. La violoncellista americana stupra il suo strumento con distorsioni inusuali, generando muri di suono e sferzate post metal. Non mancano i passaggi atmosferici (i più convincenti, per i miei gusti), ma la fisicità con la quale viene modellato e stravolto il suono del violoncello è puro noise metal sperimentale.

Dylan Carlson e Adrienne Davies inscenano il loro western fatto di spazi sconfinati, tempi dilatati, archi di roccia e distese sabbiose. Ben presto mi perdo nei riff reiterati all’infinito e negli arpeggi slabbrati, oltre che nelle distorsioni: gigantesche come la Monument Valley e bollenti come il Sole che su di essa si abbatte. Un serpente che scivola lentamente sulla sabbia, lasciando una traccia di morbide linee curve, come echi che rimbalzano in un canyon. Questi sono gli Earth oggi. Molto più fluidi di quelli che sentii nel 2006, nello storico tour di Hex, accompagnati dai Sunn O))). Più maturi, rilassati, a loro agio nell’abbandonarsi completamente al flusso sonoro. Il loro mondo si muove in slow motion, ma con passo deciso e fermo, come fossero indiani esperti, in grado di cavalcare il feedback con maestria e agilità. Fino a condurci in quel non-luogo in cui il rock si sbriciola e si disperde come sabbia. Un non-luogo di pura energia elettrica, nel quale perdersi è una vera e propria esperienza. Indimenticabile.
[R.T.]
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Earth + Helen Money – 11.23.2019 – TPO (Bologna)

In this moment of stasis for me it is natural to listen to Earth's music. A music in which time seems suspended, while indeed it flows just as two tectonic plates close to impact slide. After that, the planet will never be the same again. And so I think of their concert at the end of 2019.

Helen Money prepares the atmosphere of a TPO in a reduced version, decidedly more welcoming and with more convincing sounds than the evening when Sleep played on this stage. The American cellist rapes her instrument with unusual distortions, generating walls of sound and post metal lashes. There is no shortage of atmospheric passages (the most convincing, for my taste), but the physicality with which the cello sound is modeled and distorted is pure experimental noise metal.

Dylan Carlson and Adrienne Davies stage their western made of boundless spaces, extended times, rock arches and sandy expanses. Soon I get lost in endlessly reiterated riffs and in stretched arpeggios, as well as in distortions: gigantic like the Monument Valley and hot like the Sun that falls on it. A snake sliding slowly on the sand, leaving a trace of soft curved lines, like echoes that bounce in a canyon. These are Earth today. Much more fluid than those I listened to in 2006, during Hex historic tour, together with Sunn O))). More mature, relaxed, at ease in completely abandoning themselves to the sound flow. Their world moves in slow motion, but with a confident and determined pace, as if they were expert Indians, able to ride the feedback with skill and agility. Up to lead us to that non-place where rock crumbles and disperses like sand. A non-place of pure electricity, where getting lost is a real experience. Unforgettable.
[R.T.]

sabato 4 aprile 2020

Tinariwen – 09.11.2019 – Auditorium Flog (Firenze)


Tinariwen – 09.11.2019 – Auditorium Flog (Firenze)

Lo ammetto: stasera la mia intenzione è quella di farmi trasportare attraverso il deserto come semplice turista, curioso di scoprire un mondo a me sconosciuto ma, dalle premesse, estremamente intrigante. Uscire dalla comfort zone della musica occidentale, per perdermi in un immenso spazio inesplorato. Come guide ho scelto gente di quei luoghi: i Tinariwen, gruppo di touareg originari del Mali che hanno creato la loro musica nel corso di quarant’anni di spostamenti attraverso il Nordafrica, ma diventati noti al di là del Mediterraneo alla fine degli anni '90, grazie anche a collaborazioni illustri con musicisti occidentali. Ma fin dal loro ingresso in punta di piedi sul palco del Flog, con un brano a base di chitarra acustica e voce, si capisce subito che la loro fama non è dovuta al sostegno ricevuto dall’esterno, né tantomeno ad una curiosità superficiale legata alla loro origine, alla loro storia, o ai loro abiti di scena. Appena l’intimità dell’inizio acustico si trasforma in un mantra elettrico guidato da battito di mani e cori a più voci, sono trasportato in un viaggio al di là delle dune, dove il deserto assume i contorni di un luogo reale. Reale perché racconta la quotidianità di una vita fatta di difficoltà, ma anche di condivisione e comunità. Anche senza capire una parola di quello che viene cantato sul palco, le sensazioni trasmesse dalla musica sono così intense e universali da non aver bisogno di alcuna traduzione. La malinconia di chi è lontano dalla sua terra, la voglia di rivalsa di chi è stato sottoposto ad immani ingiustizia, la determinazione di chi vuole creare un mondo diverso. Ma anche la gioia e la felicità di un rito collettivo in cui condividere esperienze, aprendosi alle differenze. Il concerto dei Tinariwen è gioioso ed invita a ballare, ma mantiene sempre un leggera inquietudine di fondo, e un vago senso di mistero. Una festa di danze e canti intorno al fuoco di un accampamento, che però non si limita al divertimento, ma invita a fissare il fuoco a lungo, suggerendo la visione di un altro mondo, al di là delle fiamme. Un concerto cui non mancano mai ritmo (due percussionisti si intrecciano tra loro, sotto la guida di un bassista estremamente morbido, ma trascinante) e atmosfera ipnotica (gli intrecci vocali ossessivi). Con un bis infuocato che mi ricorda quanto i miei ascolti quotidiani (dai Goat agli OM) siano stati influenzati da queste atmosfere, si chiude questo viaggio. Avvalendosi di strumenti rock, e sporcando di vaghi sentori blues le melodie, i Tinariwen chiudono un cerchio che parte dall’Africa, raggiunge i deserti statunitensi per tornare poi nel continente d’origine. Alla fine di questa esperienza, impossibile non sentirsi dei viaggiatori veri e propri.
[R.T.]

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Tinariwen – 11.09.2019 – Auditorium Flog (Firenze)

I confess it: tonight I want to be carried through the desert as a simple tourist, to discover a world unknown to me but, from the premises, extremely intriguing. Getting out of the comfort zone of western music, to get lost in an immense unexplored space. As guides I choose people from those places: Tinariwen, a band of touareg from Mali who created their music during forty years of travelling through North Africa, and then became renowned beyond the Mediterranean Sea in the late 90s, thanks also to illustrious collaborations with western musicians. But since their entrance on tiptoe on Flog stage, with a song solely based on acoustic guitar and voice, it is immediately clear that their fame is not due to the support received from the outside, nor even to a superficial curiosity connected with their origin,  history or stage clothes. As soon as the intimacy of the acoustic beginning turns into an electric mantra guided by hand clapping and a chorus of many voices, I am transported on a journey beyond the dunes, where the desert takes on the contours of a real place. Real because it tells the daily routine of a life made of difficulties, but also of sharing and community. Even without understanding a word of what is sung on stage, the sensations transmitted by their music are so intense and universal that they do not need any translation. The melancholy of those who are far away from their land, the desire for revenge of those who have been subjected to immense injustice, the determination of those who want to create a different world. But also the joy and happiness of a collective ritual in which is possible to share experiences, opening up to differences. Tinariwen concert is joyful and invites to dance, but it always keeps a slight underlying anxiety, and a vague sense of mystery. A celebration made of dances and songs around the campfire, which however is not limited to fun, but invites you to stare at the fire for a long time, suggesting the vision of another world beyond the flames. A concert that never misses rhythm (two percussionists intertwine with each other, under the guidance of an extremely soft yet enthralling bass player) and a hypnotic atmosphere (obsessive vocal interweavings). With a fiery encore reminding me how much my daily listenings (from Goat to OM) have been influenced by these atmospheres, this journey ends. Playing rock instruments and staining their melodies with vague hints of blues, Tinariwen close a circle that starts from Africa, reaches the US deserts and then returns to the continent of origin. At the end of this experience, it is impossible not to feel like a real traveler.
[R.T.]