mercoledì 27 febbraio 2019

Talk Talk – Spirit of Eden


Talk Talk – Spirit of Eden
(EMI, Parlophone, 1988)

Musica per chi se ne va. In silenzio, lentamente, senza clamore. Le luci si spengono e il tempo si dilata in un flusso a scorrimento continuo, non più costretto nei ritmi ossessivi del mondo reale. Spirit of Eden è una bolla che galleggia al di là dell’epoca del suo concepimento e che si muove liberamente, al di là di qualsiasi rotta conosciuta (se non, in quegli anni, da David Sylvian). “Create a home within my head”. Il mondo esterno non esiste più, negli 11 mesi che Mark Hollis e Tim Friese-Greene trascorrono nella vecchia chiesa londinese riadattata a studio di registrazione (Wessex Studios), messa loro a disposizione dalla EMI per comporre quello che, per la casa discografica, sarebbe dovuto essere l’ennesimo disco da alta classifica. Ma in quei mesi del 1987 i Talk Talk che tutti conoscevano se ne sono andati. Lontani dai riflettori, dai concerti, dalle interviste, dai video musicali. Lontani dai suoni e dalle atmosfere del passato. Chiusi in un laboratorio illuminato solo da luci psichedeliche e avvolto nel fumo dell’incenso, sperimentano con la materia sonora, denudandola fino al silenzio più assoluto e ricostruendola fino al rumore. Il risultato è una musica che scorre talmente fluida, tra continui saliscendi di intensità e dinamica, da sembrare concepita da un gruppo jazz in perfetta armonia, mentre in realtà nasce nella mente di Hollis e Friese-Greene e prende vita dopo che innumerevoli strumentisti si sono succeduti in sessioni di improvvisazione, poi ricomposte in post produzione. Spirit of Eden è un’illusione”, per usare le parole di Hugh Davies, che al disco ha collaborato. Un’illusione che i vecchi Talk Talk utilizzano per andarsene per sempre. Evaporati nella loro stessa musica. Una musica che, invece, rimarrà in eterno.
[R.T.]
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Talk Talk – Spirit of Eden
(EMI, Parlophone, 1988)

Music for those who leave. Silently, slowly, without clamour. Lights go out and time expands in a continuous flow, no longer forced into the obsessive rhythms of the real world. Spirit of Eden is a bubble floating beyond the time of its conception and moving freely, beyond any known route (with the only exception, in those years, of David Sylvian). “Create a home within my head”. The outside world doesn't exist anymore, in the 11 months that Mark Hollis and Tim Friese-Greene spend at the Wessex Studios (an old London church adapted to a recording studio) made available to them by EMI to compose what, for the record company, should have been another high ranking record. But in those months of 1987 those Talk Talk known by everyone were gone. Away from the spotlight, from concerts, from interviews, from music videos. Far from the sounds and atmospheres of the past. Closed in a laboratory illuminated only by psychedelic lights and wrapped in the smoke of incense, they experiment with the sound matter, denuding it to the most absolute silence and reconstructing it until the noise. The outcome is a music that, among continuous ups and downs of intensity and dynamics, flows so smoothly to seem conceived by a jazz band in perfect harmony, while actually born in the mind of Hollis and Friese-Greene and come to life after countless instrumentalists have succeeded in improvisation sessions, then recomposed in post-production. "Spirit of Eden is an illusion", to use the words of Hugh Davies, who collaborated on the record. An illusion that the old Talk Talk use to leave forever. Evaporated in their own music. A music that, instead, will last forever.
[R.T.]

domenica 24 febbraio 2019

Gouge Away – Burnt Sugar


Gouge Away – Burnt Sugar
(Deathwish, 2018)

L’istante in cui la furia hardcore si rivolta contro se stessa, frantumando le sue rivendicazioni in dubbi esistenziali taglienti come schegge. Nell’isterismo di Christina Michelle (sorta di giovane Julie Christmas) c’è tutta la nevrosi di una riot grrl che non capisce se scavare a fondo dentro se stessa sia un modo per fuggire da tematiche sociali pesanti come macigni, oppure una terapia per curare la propria instabilità. La rabbia non è più diretta verso le ingiustizie sociali come nel disco d’esordio (, Dies), bensì esplode in riflessioni legate a tragedie personali (“I’m so fed up with hope” canta Christina riguardo la malattia della madre). I riff si scompongono in frammenti rugginosi senza perdere visceralità, mentre le melodie acquistano acidità grazie a dissonanze continue senza che questo infici la loro orecchiabilità. Burnt Sugar è abrasivo come un disco dei Jesus Lizard, ma al posto della folle perversione della band texana, possiede una sensibilità fortemente bipolare, alternando idrofobia – Wilt (I Won’t) – ad agrodolci attimi di speranza debitori dei Sonic Youth più luminosi – Stray. Ventisei, tormentati, minuti di splendido noise rock anni '90.
[R.T.]
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Gouge Away – Burnt Sugar
(Deathwish, 2018)

That moment when hardcore fury turns against itself, shattering its claims into sharp existential doubts like splinters. In (sort of young Julie Christmas) Christina Michelle's hysteria there is all the neurosis of a riot grrl that does not understand if digging deep inside herself is a way to escape from social issues heavy like boulders, or a therapy to cure her instability. Anger is no longer directed towards social injustices as in the debut album (, Dies), yet it explodes in reflections related to personal tragedies ("I'm so fed up with hope" sings Christina about her mother's illness). Riffs break up into rusty fragments without losing viscerality, while melodies acquire acidity thanks to continuous dissonances without this invalidating their catchiness. Burnt Sugar is abrasive like Jesus Lizard music, but instead of the crazy perversion of the Texan band, it has a strongly bipolar sensitivity, alternating hydrophobia - Wilt (I Will not) - to bittersweet moments of hope debtors of the brightest Sonic Youth - Stray. Twenty-six, tormented, minutes of wonderful 90s noise rock.
[R.T.]

domenica 17 febbraio 2019

Uncle Acid & the Deadbeats – Wasteland


Uncle Acid & the Deadbeats – Wasteland
(Rise Above Records, 2018)

Un bollettino post apocalittico in puro stile John Carpenter ci introduce nel mondo distopico immaginato da Kevin Starrs. Una popolazione sotto continua sorveglianza, con la mente svuotata da messaggi ipnotici trasmessi da una tecnologia al servizio del potere. Per raccontare il “cattivo viaggio” di alcuni dissidenti che riescono a riprogrammare la propria mente e fuggire dalla città, per ritrovarsi poi però in una terra selvaggia governata da violenza inaudita, Starrs colora la sua musica di un rosso sangue talmente brillante da abbagliare. 1997: Fuga da New York e Mad Max assumono i contorni surreali di un remake di Rob Zombie, mantenendo però la patina polverosa dei vecchi film fantascientifici degli anni '50. Giunti al quinto disco e forti di un riconoscimento ormai consolidato, gli Uncle Acid & the Deadbeats continuano a suonare sporchi come un vecchio B movie, anche nel loro album più colorato. Il loro attacco alla tecnologia continua ad avere il suono di una band che compone in un umido scantinato, anche ora che le sinistre atmosfere proto doom sono sempre più vicine ad una psichedelia allucinata che sembra nascere dalla Mansion Family (o dai Black Angels che si sono “calati” un vecchio horror). I riff oscuri e sbilenchi hanno un impatto meno dirompente rispetto al passato, perché protagonista assoluta è ormai la melodia, che segue direzioni inusuali grazie anche a splendide armonizzazioni vocali. Il ritmo e la tensione aumentano con lo scorrere delle canzoni, dimostrando quanto la capacità narrativa di Starrs sia maturata dai tempi di Vol. 1, al quale però questo Wasteland sembra riavvicinarsi da un punto di vista strettamente musicale.
[R.T.]

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Uncle Acid & the Deadbeats – Wasteland
(Rise Above Records, 2018)

A post apocalyptic bulletin in pure John Carpenter style introduces us into the dystopian world imagined by Kevin Starrs. A population under continuous surveillance, with its mind emptied by hypnotic messages transmitted by a technology at the service of power. To tell the "bad trip" of some dissidents who succeeded in reprogramming their mind and escaping from the city, but then found themselves in a wild land ruled by unprecedented violence, Starrs colours his music in a blood-red so much brilliant to be dazzling. Escape from New York and Mad Max take on the surreal contours of a Rob Zombie's remake, while maintaining the dusty coat of the old 50s sci-fi movies. With their fifth album and a consolidated recognition, Uncle Acid & the Deadbeats continue to sound dirty like an old B movie, even in their most colourful release. Their attack against technology still has the sound of a band rehearsing in a damp basement, even now that the sinister proto doom atmospheres are ever closer to a hallucinated psychedelia that seems to come from the Mansion Family (or the Black Angels who "got high" with an old horror). The dark and lopsided riffs have got a less disruptive impact than in the past, because now the absolute protagonist is melody, following unusual directions thanks to beautiful vocal harmonisations. Rhythm and tension increase with the passing of songs, proving how much Starrs' narrative capacity has matured since the times of Vol. 1, to which, however, this Wasteland seems to be near once again, from a strictly musical point of view.
[R.T.]

lunedì 11 febbraio 2019

The Bugz – 02.02.2019 – Cafè Albatross (Pisa)


The Bugz – 02.02.2019 – Cafè Albatross (Pisa)

Dopo essersi rintanate nel sottosuolo per qualche anno, le piattole ronzanti sono tornate per una sera (una soltanto, dicono loro) a infestare la loro città. Con il tipico atteggiamento spaccone, festaiolo e rumoroso che li aveva resi una delle band più divertenti della zona, sono tornate alla luce riunendo l’ultima formazione (quella che nel 2014 aveva pubblicato Confusion). E proprio sulla musica composta da questa squadra è incentrato il concerto di stasera, che si prefigge di ripartire da dove tutto si era fermato, anziché ripercorrere per intero il cammino iniziato negli anni '90. Il che è un bene anche per chi, come me, li segue dagli inizi e ha assistito a tutte le trasformazioni della band: perché se c’è una cosa sulla quale il loro rock n’ roll rumoroso non ha mai indugiato è la nostalgia. E nessuno, stasera, sente il bisogno di nostalgia. Al contrario, abbiamo bisogno di musica piena di tiro, compatta, carica e divertente. E questo è ciò che i Bugz dimostrano di saper fare ancora benissimo. Le piattole usciranno nuovamente dagli scantinati per infestare la città? Staremo a vedere!
[R.T.]
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The Bugz – 02.02.2019 – Cafè Albatross (Pisa)

After hiding in the underground for a few years, the buzzing bugs are back for one evening (only one, they say) to infest their town. With the typical bully, party and noisy attitude that had made them one of the funniest bands in the area, they came back to light by bringing together the latest lineup (the one that released Confusion in 2014). And it is precisely on the music composed by this lineup that tonight's concert is focused - starting from where everything had stopped, rather than retracing the whole path begun in the 90s. And this is a good thing also for those who, like me, follow them from the beginning and have witnessed all the transformations of the band: because if there is something on which their noisy rock n 'roll has never lingered is nostalgia. And nobody, tonight, feels the need for nostalgia. On the contrary, we need music full of groove, compact and funny. And this is what The Bugz show they can still do very well. Will the bugs come out again from the basements to infest the town? We'll see!
[R.T.]

martedì 5 febbraio 2019

Windhand – Eternal Return


Windhand – Eternal Return
(Relapse Records, 2018)

La musica dei Windhand ritorna al punto di partenza con moto perpetuo, per ripartire ogni volta da dove si era apparentemente conclusa. Una musica ciclica che scorre ineluttabile, al rallentatore, trascinandosi con passo pesante. Non esiste tragicità o teatralità nella loro rassegnazione. Solo indolenza, stanchezza e consapevolezza della propria incapacità di cambiare il naturale scorrere degli eventi. Un’arrendevole passività di fronte allo scorrere del tempo che “eleva” il quarto disco della band della Virginia a manifesto ideologico grunge. Parte di questo è certamente dovuto a Jack Endino e alla sua capacità di trasmettere, producendo il disco, tutta la spossatezza del sound di Seattle. Ma senza alcun dubbio la voce trascinata di Dorthia Cottrell possiede una dose di narcolessia che non necessita di aiuti. Così come i riff mastodontici e gommosi di Garrett Morris (chitarra) e Parker Chandler (basso) che sfibrano il groove degli Electric Wizard e degli Acid King oltre i livelli allucinatori della psichedelia, fino a toccare il ristagno emotivo. Sembra di ascoltare 4th of July in loop, interrotta solo da lampi di depressione degni di una Something in the Way abissale (Feather, ad esempio). L’eterno ritorno dei Windhand non prevede alcun evento traumatico, bensì un lento e ipnotico richiamo verso l’oblio al quale non ci resta che arrenderci.
[R.T.]
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Windhand – Eternal Return
(Relapse Records, 2018)

Windhand music returns to the starting point with perpetual motion, to restart each time from where it had apparently ended. A cyclic music that flows ineluctable, in slow motion, dragging itself with heavy pace. There is no tragic nature or theatricality in their resignation. Only indolence, exhaustion and awareness of one's inability to change the natural flow of events. A compliant passivity towards the passing of time that "elevates" the fourth record of the Virginia band to an ideological grunge manifesto. Part of this is certainly due to Jack Endino and his ability to transmit, producing the disc, all the exhaustion of Seattle sound. But without a doubt Dorthia Cottrell's dragged voice has a dose of narcolepsy that does not need any kind of help. As well as Garrett Morris (guitar) and Parker Chandler (bass) mammoth gummy riffs that exhaust Electric Wizard and Acid King groove beyond the hallucinatory levels of psychedelia, up to touch the stagnation of emotion. It's almost like listening to 4th of July in loop, interrupted only by flashes of depression worthy of an abysmal Something in the Way (Feather, for example). Windhand eternal return does not foresee any traumatic event, yet a slow and hypnotic call to oblivion to which we just have to surrender.
[R.T.]

sabato 2 febbraio 2019

Naxatras - III


Naxatras – III
(self released, 2018)

Nel 2018, con il rinnovato interesse per il cosmo suscitato dalle recenti missioni scientifiche su Marte, le esplorazioni dell’Universo compiute dai Naxatras - spirituali ed esplicitamente vintage - suonano alquanto strane. Eppure la band greca riesce a penetrare nelle profondità dello Spazio attraverso un’energia primordiale sviluppata in modo istintivo, senza l'utilizzo di tecnologie all’avanguardia o di un metodo scientifico razionale. Certo, l’origine è da ricercarsi nell’hard rock psichedelico occidentale di fine anni '60 / inizio anni '70, ma la sensibilità con la quale viene elaborata la materia sonora ha richiami orientali, come se per questa band gli studi di astrologia vedica avessero ben più importanza di quelli di fisica. Nelle atmosfere desertiche delle loro composizioni c’è tutta l’aridità di quel New Mexico in cui si sarebbe schiantato il più famoso disco volante dell’era recente. O meglio, per rimanere in ambito musicale, di quella Palm Desert in cui hanno avuto luogo i più famosi generator parties dell’epoca stoner. Negli arpeggi a spirale strabordanti di echi sembra di percepire i contorni dei cerchi nel grano delle campagne inglesi tradotti in musica dai trip acidi degli Ozric Tentacles. E negli ultimi pezzi dell'album vi sono riflessioni malinconiche a cavallo tra lo spazio sognato dai Pink Floyd e quello interiore del dream pop. La fluidità con la quale scorrono i brani, senza che questi siano ripuliti dalla sabbia e dalla polvere, odora di spiritualità libera da costrizioni razionali. Un nuovo modo di immaginare il deserto di Marte (e ciò che esso rappresenta) che eleva i Naxatras ad una delle realtà psichedeliche più affascinanti attualmente in circolazione.
[R.T.]
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Naxatras – III
(self released, 2018)

In 2018, with the renewed interest in Cosmos aroused by the recent scientific missions on Mars, the - spiritual and explicitly vintage - explorations of the Universe made by Naxatras sound rather strange. Yet the Greek band manages to penetrate the depths of Space through a primordial energy developed in an instinctive way, without the use of cutting-edge technology or a rational scientific method. Of course, the origin is to be found in the the late 60s / early 70s Western psychedelic hard rock, but the sensitivity with which the sound matter is processed has oriental references, as if for this band the studies of Vedic astrology were more relevant than those of physics. In the desert atmospheres of their songs there is all the aridity of that New Mexico in which the most famous flying saucer of the recent era should have crashed. Or rather, to remain in the musical field, of that Palm Desert in which the most famous generator parties of the stoner era took place. In the spiral arpeggios, overflowing with echoes, it seems to perceive the contours of the crop circles in the English countryside translated into music by Ozric Tentacles' acid trips. And in the last tracks of the album there are melancholic reflections halfway between the Space imagined by Pink Floyd and the inner one of dream pop. The fluidity with which songs flow, without these being cleaned of sand and dust, smells of spirituality free from rational constraints. A new way of imagining the desert of Mars (and what it represents) that elevates Naxatras to one of the most fascinating psychedelic realities currently in circulation.
[R.T.]