lunedì 27 febbraio 2017

The Jesus Lizard - Head


The Jesus Lizard - Head
(Touch And Go, 1990)

Lasciata alle spalle l'influenza blues degli Scratch Acid, il cantante David Yow e il bassista David Sims incontrano il produttore Steve Albini e il chitarrista Duane Denison, e approdano ad un noise rock dissonante e pervertito. Con un batterista in carne e ossa (McNeilly) al posto della drum machine (usata nell'EP Pure, 1989), i Jesus Lizard compongono un album abrasivo, eccitante per il suo dinamismo ritmico e disturbante per la sua decostruzione melodica. Head è capace di espandersi incredibilmente con le sue canzoni da 2-3 minuti grazie ai riffs e agli arpeggi alienanti di Denison, perfettamente inseriti in una struttura ritmica in costante movimento, ma profondamente allucinata come uno scheletro disarticolato dei Joy Division. Yow vomita nel microfono un nichilismo disperato che non si aspetta di essere compreso in un album che risulterà essere il padre del disagio degli anni '90.
[R.T.]
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The Jesus Lizard - Head
(Touch And Go, 1990)

Left behind the blues influence of the noisy and deviated band called Scratch Acid, singer David Yow and bass guitar player David Sims meet the producer Steve Albini and the guitarist Duane Denison, landing to a dissonant and perverted noise rock.  With a real drummer (McNeilly)  and no drum machine (used in EP Pure, 1989) The Jesus Lizard compose an abrasive album, exciting for its rhythmic dynamism and disturbing for its melodic deconstruction. Head can expand itself dramatically with its 2-3 minutes songs, because of alienating Denison arpeggios and riffs, perfectly fitted in a rhythmic structure in constant motion, but deeply hallucinated as a disarticulated Joy Division skeleton. Yow vomits a desperate nihilism that doesn’t expect to be understand, in a album that will be the father of 90’s discomfort.
[R.T.]

venerdì 24 febbraio 2017

Deathspell Omega - The Synarchy of Molten Bones


Deathspell Omega - The Synarchy of Molten Bones
(Norma Evangelium Diaboli, 2016)

I Deathspell Omega hanno fatto un patto con il Diavolo. Il demonio mantiene ancora vivo lo spirito esploratore e la creatività dei francesi ed in cambio usa la loro musica per tenere aperti i cancelli dell'Inferno. Da quei cancelli (gestiti dalla band con maestria e con straordinaria perizia tecnica) fuoriesce il caos. Nei circa 30 minuti del loro ultimo lavoro - The Synarchy of Molten Bones - si è travolti da un'orda inferocita di riff taglienti, che ci assalgono da ogni direzione lasciandoci storditi. Impossibile opporsi o cercare un ordine in questo pandemonio. Non resta che lasciarsi travolgere da una delle più estreme creazioni della band. Dopo alcuni anni maggiormente dediti all'esplorazione delle dissonaze post metal, le sfuriate black metal tornano protagoniste, ma seguono labirintiche strutture progressive in cui si finisce col perdere l'orientamento. I Deathspell Omega fanno al black metal ciò che i Gorguts hanno fatto al death: lo abbracciano tanto intensamente da sfigurarlo e trasformarlo in qualcosa di diverso. Violentissimo, implacabile e annichilente, The Synarchy of Molten Bones è l'ennesimo grande disco di una band che nel corso della sua carriera ha tracciato sempre nuove strade nell'ambito della musica estrema, e che ancora oggi continua a proporre nuove direzioni da seguire, ergendosi come punto di riferimento.
[R.T.]
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Deathspell Omega - The Synarchy of Molten Bones
(Norma Evangelium Diaboli, 2016)

Deathspell Omega signed a pact with the Devil. The daemon keeps still alive the exploratory spirit and the creativity of the French combo, and in exchange he uses their music to keep the gates of hell wide open. From those gates (managed by the band with skill and extraordinary technical expertise) the chaos pours out. In the 30 minutes of their latest release - The Synarchy of Molten Bones - the listener is overwhelmed by a horde of angry sharp riffs, assaulting him from every direction and leaving him stunned. Impossible to oppose to it or to seek an order in this pandemonium. You just have to let yourself be carried away by one of the most extreme creations of the band. After a few years focused on the exploration of post metal dissonances, black metal outbursts are again the main character, yet now they follow mazy progressive structures in which the orientation is soon lost. Deathspell Omega do to black metal what Gorguts have done to death: they do embrace it so intensely that they disfigure it and turn it into something different. Ultra-violent, relentless and annihilating, indeed The Synarchy of Molten Bones is another great album of a band that, in the course of its career, has always traced new paths in the field of extreme music and that still today continue to propose new directions to be followed, rising as a landmark.
[R.T.]

lunedì 20 febbraio 2017

Fugazi - Repeater

Fugazi - Repeater
(Dischord Records, 1990)

Il primo album dei Fugazi è la fusione definitiva delle visioni politiche e personali, e delle poetiche sociologiche ed esistenzialiste, dell'hardcore. E' un pilastro degli ideali hardcore, perché suggerisce un nuovo - più maturo - principio. Dalla produzione "Do It Yourself" ai testi incentrati sui problemi sociali, passando attraverso la musica dissonante e destrutturata e la gestione indipendente dell'arte, Repeater incarna tutta la coerenza del "Post Hardcore" dei Fugazi. Scava una trincea fra sé e il mondo della musica maintream, tanto dal punto di vista dell'etica quanto dal punto di vista della musica. Si avvicina ad una visione più intima ed emotiva della rabbia punk, incanalandola contro quegli aspetti della società che inducono alienazione attraverso un esasperato individualismo. Articolato, torto e spigoloso, Repeater è uno dei simboli dell'evoluzione dell'hardcore e del rock indipendente.
[R.T.]
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Fugazi - Repeater
(Dischord Records, 1990)

First Fugazi long playing is the definite association of political and personal hardcore visions, of sociological and existentialist poetics. It’s a mainstay of hardcore ideals, because it suggests a new, more mature, principle. From “Do It Yourself” production to social problems lyrical themes, from dissonant and destructured music to independent management of the art, Repeater embodies all the coherence of Fugazi “Post hardcore”. It digs a trench against mainstream music world, so much in ethical aspects as much in musical ones. It approaches to a more intimate and emotive vision of punk anger, directing it against those aspects of the society inducing alienation through exasperated individualism. Articulated, crooked and angular, Repeater is a symbol of hardcore and independent rock evolution.
[R.T.]



sabato 18 febbraio 2017

Blues Pills - Lady in Gold


Blues Pills - Lady in Gold
(Nuclear Blast, 2016)

Mai come negli ultimi anni il ruolo della donna era stato così centrale nel mondo del rock. Spodestati i colleghi maschi dal centro del palcoscenico, sono diventate principali attrici della rinascita del rock "classico" attualmente in atto. Una delle regine più carismatiche di questa nuova ondata è la svedese Elin Larsson, la cui caldissima voce guida la musica dei Blues Pills. Lady in Gold (secondo album della band) si sviluppa lungo le sinuose melodie delle corde vocali della Larsson, le quali possiedono la potenza e la profondità generalmente associate ad una cantante nera afroamericana, anziché ad una bionda svedese. Se a questa evidente componente soul - perfettamente inserita nella matrice blues/hard rock della band - si aggiunge la sensibilità luminosa e piena di energia vitale della Larsson, si comprende subito quanto i Blues Pills si distacchino dalla schiera di band retro rock guidate dal gentil sesso, spesso legate al lato umbratile e misterioso dell'hard rock settantiano e poco inclini a giocare con i chiaroscuri. Proprio l'ambigua miscela di luce e tenebra, invece, rende Lady in Gold un disco incredibilmente affascinante. Nostra signora della luce, al potere!
[R.T.]
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Blues Pills - Lady in Gold
(Nuclear Blast, 2016)

Never as in recent years the role of women had been so central in the rock world. Dethroned the male colleagues from the center of the stage, they have become the main actresses of the rebirth of "classic" rock currently underway. One of the most charismatic queens of this new wave is the Swedish Elin Larsson, whose voice guides the music of the Blues Pills. Lady in Gold (second album of the band) develops along the sinuous melodies of Larsson vocal chords, which have the power and depth usually associated with an African American black singer rather than to a Swedish blonde. Add Larsson bright sensitivity and vital energy to this evident soul music component - perfectly inserted in the blues/hard rock matrix of the band - and it will be immediately clear how much Blues Pills detach from the swarm of retro rock band captained by women, too often linked to the shadowy and mysterious side of seventies hard rock and little inclined to play with light and shade. Precisely the ambiguous mixture of light and darkness, indeed, makes Lady in Gold an incredibly fascinating album. Our Lady of light, rise to power!
[R.T.]

lunedì 13 febbraio 2017

Helmet - Strap It On


Helmet - Strap It On
(Amphetamine Reptile, 1990)

Un incidente stradale. Una vecchia auto scassata e polverosa si schianta a tutta velocità su un pilone in cemento armato. Lamiere contorte, sbarre di ferro arrugginite che vengono fuori dal muro incrinato, schegge di vetro impazzite. Noise rock e metal deflagrano in uno schianto rumoroso. Tra i resti dell’impatto si trovano i semi del metal alternativo del futuro. Pubblicato nel 1990 dalla Amphetamine Reptile, in soli 30 minuti il disco d’esordio degli Helmet mostra una nuova strada, costellata di resti di ferro, vetro, cemento e sangue, che in molti percorreranno negli anni a venire. Page Hamilton gioca con la dissonanza come uno Steve Albini sotto anfetamina, liberando con la sua chitarra riff nervosi e taglienti come un rasoio infettato dal tetano, mentre John Stanier alla batteria non riesce a contenere l’adrenalina, lasciandola sfuggire in ogni direzione, tra ritmi convulsi e sincopati. Nel post hardcore della band newyorkese c’è tutta la potenza e il groove (ma anche il disagio) della musica che si svilupperà nel decennio appena iniziato. Seminale, e ancor oggi straordinariamente attuale.
[R.T.]
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Helmet - Strap It On
(Amphetamine Reptile, 1990)

A car accident. An old battered dusty car crashes at full speed on a concrete pylon. Twisted metal sheets, rusty iron bars coming out of the cracked wall, crazy glass slivers. Noise rock and metal explode in a loud crash. Among the ashes of  the impact there are the seeds of the alternative metal of the future. Published in 1990 by Amphetamine Reptile, in just 30 minutes Helmet debut album,  shows a new way, dotted with remains of iron, glass, cement and blood, which many bands will travel in years to come. Page Hamilton plays with dissonance like a Steve Albini in amphetamine, releasing with his guitar riffs which are nervous and sharp as a razor infected by tetanus, while John Stanier on drums cannot contain adrenaline, letting it flow in any direction, with frantic syncopated rhythms. In the NY band post-hardcore there is all the power and the groove (but also the discomfort) of the music that will be developed in the decade just begun. Seminal, and extraordinarily relevant still today.
[R.T.]

giovedì 9 febbraio 2017

Josefin Öhrn + The Liberation - Horse Dance

Josefin Öhrn + The Liberation - Horse Dance
(Rocket Recordings, 2015)

Quando salirono alla ribalta (fra la fine degli anni '60 e gli anni '80) le macchine fotografiche Polaroid raccolsero un grande successo per l’immediatezza con la quale le fotografie venivano sviluppate, direttamente tra le mani di chi le aveva scattate. Tecnologia futuribile alla portata di tutti. Adesso che le Polaroid sono diventate obsolete e che la condivisione in tempo reale di scatti  della nostra vita è la norma, le vecchie macchine per fotografie istantanee affascinano ancor di più, essendosi ammantate di un’atmosfera nostalgica. Per questo un’applicazione per smartphone come Instagram, che si basa sul taglio quadrato dell’inquadratura e su foto ritoccabili con filtri che simulano gli effetti dell’usura del tempo ha così tanto successo ultimamente. Horse Dance - album della svedese Josefin Öhrn e della sua band The Liberation - segue lo stesso principio di Instagram (guarda caso la foto di copertina, con il soggetto al centro, pare manipolata con l’applicazione in questione). La musica della band svedese recupera infatti, con senso nostalgico e vagamente malinconico, suoni e atmosfere del synth-pop/darkwave di inizio anni '80, oltre che del pop psichedelico di fine '60 e del krautrock dei 70, e lo rilegge nell’ottica del nuovo millennio, con la sensibilità di una band indie. Il senso di distacco dal presente è trasmesso con un incedere annoiato, pur essendo una musica pienamente inserita nella contemporaneità. Otto bozzetti pop in cui ripetizioni ipnotiche di synth e ritmiche pre-elettroniche ossessive di batteria si inseguono lungo le autostrade care ai Kraftwerk e ai Can, miscelandosi con accenni analogici (l’energia e il calore di una chitarra - ora riverberata, ora fuzzosa - e di un basso gommoso ed elastico). Il tutto mentre la voce sospirata, ipnotica, sensuale della Öhrn ci porta in territori sognanti e onirici. Il risultato è un bel disco psichedelico e caleidoscopico, affascinante come una vecchia Polaroid (o almeno come una bella foto rielaborata con Instagram!).
[R.T.]
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Josefin Öhrn + The Liberation - Horse Dance
(Rocket Recordings, 2015)

When they came into the limelight (between the late 60s and the 80s) Polaroid cameras gathered a great success for the immediacy with which photos were developed, right into the hands of those who shot them. Futuristic technology available to everyone. Now that Polaroid cameras have become obsolete and that the sharing of real-time shots of our life is the norm, the old machines for instant photographs have become even more fascinating, cloaked in a nostalgic atmosphere. This is why a smartphone app like Instagram, based on cut square framing and photos retouchable with filters simulating the effects of time wear, it is so successful lately. Horse Dance - album of the Swedish Josefin Öhrn and her band The Liberation - follows the same principle of Instagram (coincidentally, with the subject at its center, the cover photo seems manipulated by this app). Indeed, with a nostalgic, vaguely melancholy sense, the music of the Swedish band recovers the sounds and atmospheres of the eraly 80s synth-pop/darkwave, as well as the late 60s psychedelic pop and 70s krautrock, and it rereads it in the light of the new millennium, with the sensitivity of an indie band. The sense of detachment from the present is transmitted with a bored gait, despite being a music fully seated in the contemporary world. Eight pop sketches in which hypnotic synth repetitions and obsessive pre-electronic drum rhythms chase one each other along those highways dear to Kraftwerk and Can, mixing themselves with analog hints (the energy and warmth of a - now reverberated now fuzzy - guitar and a gummy elastic bass). All this while Josefin Öhrn hypnotic, sensual voice takes us intodreamy and dreamlike territories. The result is a beautiful psychedelic and kaleidoscopic album, charming as an old Polaroid (or at least as a nice picture reworked with Instagram!).
[R.T.]

martedì 7 febbraio 2017

Evilgroove - Cosmosis


Evilgroove - Cosmosis
(Self released, 2017)

Sembra impossibile equilibrare cervello, muscoli, pancia e cuore nella musica pesante. Basando la sua essenza sugli estremi, infatti, spesso si ritrova ad esaltare uno di questi aspetti, rinnegando gli altri. Gli Evilgroove riescono invece a far convivere anime apparentemente contrastanti dimostrando una forte personalità.
Se la copertina del loro disco d'esordio - Cosmosis - e l'intro ipnotico della traccia d'apertura - Turn Your Head - richiamano la ricercatezza stilistica del metal progressivo di stampo psichedelico della band capitanata da Maynard Keenan (sensazione confermata nel corso dell'album dal basso liquido che si arrampica sulle ritmiche cerebrali della batteria), i riff grassi e rotondi della chitarra hanno il cuore negli Stati Uniti del Sud, tanto cari alle band di un altro Keenan: Pepper.
Partendo dall'America rurale (o dalla nebbia della Val Padana!), la band bolognese si avventura in viaggi mentali, in un futuro fantascientifico. Bottiglia di whiskey alla mano, va incontro agli alieni. La voce di Fraz è quella del pilota dell'astronave: americano con cappello da cowboy in testa e chewing gum in bocca, sorta di Phil Anselmo che segue le melodie sghembe degli Alice in Chains. Il groove (come si intuisce dal nome della band) è il carburante che spinge l'astronave, la quale non rischia mai di andare in riserva di energia, neanche nei passaggi più atmosferici o più complessi. Anche quando la distorsione, solitamente robusta, lascia spazio a melodie orientaleggianti, c'è sempre una sezione ritmica dinamica che tiene in fermento le orecchie dell'ascoltatore. 
Lo stoner metal del quartetto bolognese riesce a suonare asciutto, potente, diretto e senza fronzoli nonostante la complessità di alcuni passaggi, dimostrando quanto la miscela dei contrasti sia perfettamente equilibrata. Dieci canzoni che si stampano in mente fin da subito, reclamando il pulsante Play alla fine di ogni ascolto.
[R.T.]
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Evilgroove - Cosmosis
(Self released, 2017)

The balance of brain, muscles, stomach and heart seems impossible in heavy music. Grounding its essence on the extremes, indeed, it often finds itself exalting one of these aspects, denying others. Evilgroove, instead, provide a combination of seemingly conflicting souls showing a strong personality. 
If the cover of their debut album - Cosmosis - and the hypnotic intro of the opening track - Turn Your Head - recall the psychedelic progressive metal of the band captained by Maynard Keenan (feeling which is strenghtned in the whole album by the liquid sound of the bass climbing on the brainy rhythms of the drum), the mighty guitar riffs have got their heart in the Southern U.S. so dear to the band of another Keenan: Pepper.
Departing from rural America (or from the fog of the Po Valley!), the band from Bologna ventures into mental journeys, into a sci-fi future. Whiskey bottle in one hand, they meet the aliens. Fraz voice is that of the pilot of the spaceship: the American with cowboy hat on his head and chewing gum in his mouth, sort of Phil Anselmo following Alice in Chains crooked tunes. The groove (as you can easily imagine from the name of the band) is the fuel that drives the spaceship, which is not likely to ever go into reserves of energy, even in the more atmospheric or complex passages. Even when the (usually robust) distortion leaves room for oriental melodies, there is always a dynamic rhythmic section that keeps buzzing the ears of the listener.
The stoner metal of the quartet from Bologna succeeds in sounding dry, powerful, direct and no-nonsense despite the complexity of some passages, showing how much the blending of contrasts is perfectly balanced. Ten songs that are printed in mind right from the outset, claiming the Play button at the end of each listening.
[R.T.]

venerdì 3 febbraio 2017

Russian Circles - Guidance


Russian Circles - Guidance
(Sargent House, 2016)

Comporre una colonna sonora in grado di accompagnare la nostra vita. Come se questa fosse un film. Sviluppare in modo cinematografico anche l’intimità più profonda, senza però spettacolarizzarla in stile hollywoodiano. Compito per niente facile. Registi raffinati, i Russian Circles riescono nell’intento con naturalezza. Interamente strumentali, le costruzioni scenografiche erette dal trio di Chicago sono salde, imponenti, e al tempo stesso fluide, in continuo movimento. Non sono necessari strabilianti effetti speciali o sbalorditive novità. Perfetta messa a fuoco sulle melodie, varietà del registro ritmico, utilizzo della luce atmosferica a tratteggiare i contrasti (calore e gelo, pace e disperazione, distensione e tensione) fino a sfumarli gli uni negli altri: qui risiede la bellezza di Guidance, album (il sesto della band americana) in cui i diversi brani virano gli uni negli altri come frammenti di una coesa suite progressive rock. Di sapore folk, le prime note della chitarra di Mike Sullivan ci introducono in un ambiente bucolico, dominato da una delicata nostalgia. Ma ben presto - guidata dal basso tonante, talvolta distorto, di Brian Cook e dalla batteria ipercinetica e fantasiosa di Dave Turncrantz - l’intensità drammatica cresce, travolgendoci con possenti bordate post metal, bagliori di un’Apocalisse incombente. Una colonna sonora intensa, tanto appassionata e maestosa quanto spirituale e introspettiva, con la quale i Russian Circles confermano la maturità compositiva di Memorial (2013), dimostrandosi i migliori eredi di quei Pelican, Isis e Red Sparowes che nei primi anni '00 avevano congiunto la delicatezza del post rock con la veemenza del metal.
[R.T.]
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Russian Circles - Guidance
(Sargent House, 2016)

Compose a soundtrack to accompany our life. As if this were a movie. Develop cinematically even the deepest intimacy, without making it a Hollywood show. By no means easy task. Refined directors, Russian Circles succeed in this aim with ease. Entirely instrumental, the scenographic constructions erected by the Chicago trio are solid, impressive, and yet fluid, constantly moving. There is no need of breathtaking special effects or jaw-dropping news. Perfect focus on melodies, rhythmic variety, use of the atmospheric light to outline the contrasts (heat and frost, peace and hopelessness, relaxation and tension) up to the point of fading them into one another: here it lies the beauty of Guidance, albums (the sixth of the American band) in which the different tracks veer into one another like fragments of a cohesive progressive rock suite. Folk flavored, the first notes of Mike Sullivan guitar introduce us in a bucolic setting, dominated by a gentle nostalgia. But soon - led by the Brian Cook thundering, sometimes distorted, bass and Dave Turncrantz hyperkinetic imaginative drum - the dramatic intensity grows and it overwhelms us with mighty post metal strokes, flashes of an impending Apocalypse. An intense soundtrack, so passionate and majestic as spiritual and introspective, through which Russian Circles confirm the maturity of composition of Memorial (2013), proving to be the best heirs of those Pelican, Isis and Red Sparowes that in the early '00s joined the delicacy of post rock with the vehemence of metal.
[R.T.]