giovedì 29 dicembre 2016

Top 20 Live Concerts 2016


Our personal selection of live concerts seen in 2016, in chronological order:

Coroner - 07.02.2016 - The Cage Theatre (Livorno)
La Piramide di Sangue – 04.03.2016 – No Cage (Prato)
Sasquatch - 11.03.2016 - Cafè Albatross (Pisa)
Bologna Violenta – 15.04.2016 - No Cage (Prato)
Monomyth - Desertfest London 2016 - Day 2 
Russian Circles - Desertfest London 2016 - Day 2 
Monolord - Desertfest London 2016 - Day 3
Juggernaut – 14.05.2016 – Freakout Club (Bologna)
Gordo – 18.06.2016 – Viterbo (Secret Show)
Storm{O} – 05.08.2016 – Disintegrate Your Ignorance Fest - Day 1
Hate & Merda – 06.08.2016 – Disintegrate Your Ignorance Fest - Day 2
Neurosis – 11.08.2016 – Festa Radio Onda D’Urto (Brescia)
Chelsea Wolfe – 14.08.2016 – MusicaW Festival (Castellina Marittima, PI)
Yob - Desertfest Antwerp 2016 – Day 1 
Årabrot - Desertfest Antwerp 2016 - Day 2 
Duel -Desertfest Antwerp 2016 - Day 3 
Uncle Acid & The Deadbeats  - Desertfest Antwerp 2016 - Day 3 
Atomic Bitchwax - Heavy Psych Sounds Fest - Volume III – Day 2
Deville - 30.10.2016 - Ganz of Bicchio (Viareggio, LU)
King Crimson - 09.11.2016 - Teatro Verdi (Firenze)
 [E.R. + R.T.]

martedì 27 dicembre 2016

Top 5 Cover Artworks 2016


Our personal selection of cover artworks of 2016 albums, in alphabetical order:

  • Blaak Heat – Shifting Mirrors (Cover art: illustration from The Rubáiyát of Omar Khayyám, Balfour Edition – Layout by Jari Nieminen)
  • Duel – Fears of the Dead (cover artwork by Branca Studio)
  • Fuzz Orchestra – Uccideteli Tutti! Dio Riconoscerà I Suoi! (grafica: Fabio Ferrario e Francesca Colavolpe – layout: Iacopo Gradassi per Woodworm)
  • Lotus Thief – Gramarye (visualization occurred by Irrwisch)
  • Subrosa – For This We Fought The Battle Of Ages (album illustration and layout by Glyn Smyth, Stag & Serpent)
[E.R. + R.T.]


domenica 25 dicembre 2016

Alcest - Kodama


Alcest - Kodama
(Prophecy, 2016)

Gelida mattina d’inverno, il Sole che splende tra i rami. Il bosco è addormentato sotto un sottilissimo strato di neve. La luce accarezza i cristalli di ghiaccio facendoli risplendere. Il fusto degli alberi libera il calore accumulato sciogliendo la neve intorno a sé. Assaporare la spiritualità di questo luogo, in silenzio. Questo è Kodama. Il quinto disco degli Alcest è un tributo agli spiriti degli alberi e alle loro voci risuonanti nel cuore delle foreste giapponesi. La delicatezza di una chitarra arpeggiata - malinconica, ma carica di speranza - fronteggia la furia dell’impetuoso vento black metal. Forza e fragilità si fondono in un bosco tanto intimo quanto maestoso e vasto. Non c’è mai oscurità. Neppure nei passaggi in cui le distorsioni travolgono tutto. La forza della Natura, per quanto incontenibile, non è mai oppressiva. Chiede solo il completo abbandono dentro di essa. Se nel disco precedente (Shelter) gli Alcest si erano gettati nelle melodie solari e delicate del dream pop e dello shoegaze, mettendo quasi completamente da parte il sottobosco metal dal quale erano nati, con Kodama si riallacciano al cammino intrapreso nei primi 3 album, all'intreccio di black metal, darkwave e shoegaze. Ma l’atmosfera evocata dalla musica del duo francese conduce ora l’ascoltatore dall’altra parte del mondo: in Giappone. Talvolta in modo esplicito, talvolta in modo più velato. Un Giappone fantastico, tra leggenda, spiritualità e sogno. In questo luogo dell’anima, dove i contrasti si equilibrano alla perfezione, è possibile sentire la voce degli spiriti degli alberi, che cantano nella foresta. Un canto meraviglioso, di totale e assoluta libertà. 
[R.T.]
*** 

Alcest - Kodama
(Prophecy, 2016)

Frosty winter morning, the sun shining through the branches. The forest is asleep under a thin layer of snow. Light caresses the ice crystals making them shine. The trunks of the trees free the heat they stored melting the snow around them. Relish the spirituality of this place, in silence. This is Kodama. The fifth Alcest album is a tribute to the spirits of the trees and their voices resounding in the hearts of the Japanese forests. The lightness of an arpeggiated guitar - melancholic, yet full of hope - faces the fury of the impetuous black metal wind. Strength and fragility come together in a forest so intimate as majestic and vast. There is never darkness. Even in those passages where distortions overwhelm everything. Even though irrepressible, the force of Nature is never oppressive. It only asks the complete abandonment in it. If in the the previous album (Shelter) Alcest had thrown themselves into the solar delicate melodies of dream pop and shoegaze, putting almost completely aside the black metal undergrowth from which they were born, with Kodama they look - and go - back to the direction taken in theirs first three albums, to the interweaving of black metal, shoegaze and darkwave. But the atmosphere evoked by the music of the French duo now leads the listener to the other side of the world: in Japan. Sometimes explicitly, sometimes in a more veiled way. A fantastic Japan, made of legend, spirituality and dream. In this place of the soul, where contrasts are balanced to perfection, you can hear the voice of the spirits of the trees singing in the forest. A wonderful song, of absolute freedom.
[R.T.]

domenica 18 dicembre 2016

Neurosis – Fires Within Fires

Neurosis – Fires Within Fires
(Neurot Recordings, 2016)


Il suono dei Neurosis nasce dalla tenace stabilità con la quale i suoi membri collaborano insieme dalla metà degli anni 80. Ma se la maturità della loro musica trova spiegazione nell'affiatamento tra i componenti di una formazione rimasta invariata da decenni, l'urgenza espressiva mostrata con l'ultimo album - Fires within Fires - è inusuale per una band che non ha mai attinto nuove energie dall'esterno. L'energia proviene tutta da dentro. La danza liquida e dissonante nella quale si avvitano e si piegano le chitarre, prima di compattarsi in un muro di suono mastodontico nell'iniziale Bending Light, evidenzia tanto il legame profondo che unisce questi musicisti, quanto la loro capacità di mantenere accesa la fiamma della creatività. Così come il perfetto intrecciarsi delle voci di Scott Kelly e Steve Von Till, che paiono una cosa sola nella conclusiva Reach. Forse il fatto che negli ultimi anni Kelly e Von Till abbiano scavato sempre più in profondità dentro loro stessi (attraverso progetti solisti o collaborazioni con altri musicisti) è servito per trovare una nuova forma di energia interiore. Un’energia matura, non più diretta all’esplorazione di territori sconosciuti, bensì allo sviluppo di una personalità sempre più solida. Lo spirito di ricerca che ha reso rivoluzionari alcuni capolavori del passato è sopito, ma la forza annichilente e al tempo stesso rigeneratrice delle loro composizioni è più viva che mai. Quando sporcano di fango gli arpeggi darkwave o gli intrecci pinkfloydiani di basso e chitarra  in Reach, oppure quando si avventurano nelle foreste del Von Till solista in Broken Ground, prima di travolgere tutto con riff dal vigore sorprendente, i cinque di Oakland dimostrano che la montagna che hanno costruito in 30 anni non ha perso neanche un granello.
[R.T.]
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 Neurosis – Fires Within Fires
(Neurot Recordings, 2016)


Neurosis sound originates from tenacious stability with which its members have been working together since mid 80s. But if the maturity of their music is explained by the understanding of the elements of a lineup that has remained unchanged for decades, the expressive urgency shown with their latest album - Fires Within Fires - is unusual for a band that has never got new energy from the outside. Their energy comes entirely from within. The liquid dissonant dance in which guitars spin and bend themselves, before they get compacted into a gigantic wall of sound in the initial Bending Light, highlights both the strong bond between these musicians and their ability to keep the flame of creativity alight. As well as the perfect interweaving of Scott Kelly and Steve Von Till voices, which appear to be one only thing in the final Reach. Maybe the fact that, in recent years, Kelly and Von Till have always dug deeper into themselves (through solo projects and collaborations with other musicians) has been useful to find a new form of inner energy. A mature energy, no longer directed to the exploration of unknown territories, yet oriented to the development of a more and more solid personality. The spirit of research that has made revolutionary some masterpieces of the past is now dormant, but the strength of their songs - at the same time annihilating and regenerating - is more alive than ever. When they soil with mud the darkwave arpeggios or the “pinkfloydian” weaving of bass and guitar in Reach, or when they venture into the forests of soloist Von Till in Broken Ground, before they overwhelm everything with striking force riffs, the five from Oakland show that the mountain they have been building in 30 years has not lost even a speck.
[R.T.]


venerdì 16 dicembre 2016

Ahab + The Foreshadowing – 25.11.2016 – Exenzia Der Club (Prato)


Ahab + The Foreshadowing – 25.11.2016 – Exenzia Der Club (Prato)

Stasera è dedicata ad una “prima assoluta” e ad una seconda “per riconferma”. La serata in realtà propone anche altre bands, ma io ce la faccio ad arrivare soltanto prima dell’inizio di quelle appuntate sulla mia lista di “desiderata”.

I romani The Foreshadowing mi conquistarono letteralmente al concerto al Cycle di Calenzano nel gennaio 2014 (tour di spalla ai danesi Saturnus, insieme a Doomraiser e Shores of Null). Da allora aspettavo con ansia l’occasione per sentirli nuovamente dal vivo e l’uscita del nuovo Seven Heads Ten Horns me ne ha finalmente dato l’opportunità. Viste le alte aspettative e visto che – nonostante sia uscito già da alcuni mesi – non avevo ancora ascoltato il nuovo album, il rischio di rimanere non pienamente soddisfatta era davvero alto. E invece la band romana ha lasciato il segno anche stavolta e si è riconfermata. Molte le canzoni dal nuovo album e su tutte ha spiccato la splendida suite finale Nimrod. Suoni decisamente buoni, con le linee di tutti gli strumenti (tastiere/synth compresi) ben in evidenza. L’unico a rimanere leggermente sotto – non so se per volume/settaggio del microfono o per mal di gola/“serata no” – è Marco Benevento, la cui voce cavernosa regala brividi ed emozioni, ma non risulta profonda e oscura come nel precedente live e come su disco. Peccato veniale, per una formazione che ad una indubbia capacità tecnica affianca canzoni che catturano l’ascoltatore per la loro carica emotiva.

Gli Ahab me li erano tenuti in serbo per questa data perdendomeli al Desertfest Belgium (suonavano in contemporanea con i Pentagram, e – sapendo che per fortuna li avrei recuperati un mese e mezzo dopo in Italia – li avevo lasciati “in sospeso” in attesa del concerto di stasera). Il quartetto tedesco mi travolge fin dalla prima nota con il suo suono profondo, possente e “oceanico”, e resto da subito stordita dalla lentezza e pesantezza doom di ogni singola nota. Se la chitarra di Daniel Droste infila uno dietro l’altro riffs ed assoli di cristallina e oscura bellezza, è sicuramente la batteria di Cornelius Althammer ciò che più di ogni altra cosa cattura lo spettatore. Ogni singolo “colpo” sferrato dal batterista è davvero micidiale ed è una specie di secondo motore della band, capace di aggiungere un imprevisto – pur sempre monolitico – dinamismo ad ogni nota suonata, così come ad ogni canzone nella sua interezza. La voce di Droste è ipnotica, quasi un mantra degli abissi, quando risuona nel suo growl più pieno e fangoso. Spiazzante nelle parti pulite, in cui – forse non sempre perfetta, ma comunque efficace – mi porta alla mente Aaron Stainthorpe per l’incedere teatrale e – a tratti – dolente. Un set incredibile, la cui ora e mezzo è scorsa via in un attimo (e questo può sembrare un paradosso, visto il genere!), e la cui chiusura è affidata ad un estratto dal primo, seminale, The Call of the Wretched Sea.
[E.R.]

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Ahab + The Foreshadowing – 11.25.2016 – Exenzia Der Club (Prato)

Tonight is dedicated to a "première" and a second time "for reconfirmation".There are also other bands playing this evening, but I managed to arrive only before the start of those pinned on my wishlist.

Roman The Foreshadowing literally won me over with their concert at Cycle, in Calenzano, in January 2014 (support tour to Danish Saturnus, along with Doomraiser and Shores of Null). Since then I looked forward to the chance to hear them again live and the release of the new Seven Heads Ten Horns has finally given me this opportunity. Considering the high expectations and the fact that - even though already out a few months ago - I had not heard the new album yet, the risk to remain not completely fulfilled was really high. Yet the Roman band left its mark once again and reconfirmed itself. Many songs from the new album and upon all the wonderful final suite Nimrod really stood out. Definitely good sounds, with the lines of all instruments (keyboards/synths included) well in evidence. The only one to remain slightly below his talent - do not know if for volume/setting of the microphone or sore throat/"bad night" - is Marco Benevento, whose cavernous voice gives chills and emotions, but it does not sound deep and dark as in the previous live and on recordings. Venial sin, for a band that put side by side to an undoubted technical ability songs that capture the listener for their emotional charge.

I lost Ahab gig at Desertfest Belgium to listen to them tonight (they played simultaneously with  Pentagram, and - knowing that luckily I would have recovered them a month and a half later in Italy - I had left them "on hold" pending for this date). The German quartet overwhelms me from their very first note with its deep, powerful and "oceanic" sound and I immediately feel stunned by the doomy slowness and heaviness of every single note. If Daniel Droste guitar puts one behind the other riffs and solos of crystalline and dark beauty, it is definitely  Cornelius Althammer drums what captures the audience more than anything else. Every single stroke of the drummer is really deadly and it is kind of a second engine of the band, able to add an unexpected - still monolithic - dynamism to each note as well as to each song in its entirety. Droste voice is hypnotic, almost a mantra of the deep, when it resonates in his full muddy growl. Surprising in clean parts, in which - perhaps not always perfect, but still effective - he reminds me of Aaron Stainthorpe for his theatrical and - at times - sorrowful gait. An incredible set, whose hour and a half ran away in a moment (and this may seem paradoxical, given the genre!), and whose closing is entrusted to an excerpt from the first, seminal, The Call of the Wretched Sea.
[E.R.]

domenica 11 dicembre 2016

The Gooch Palms + Unkle Funkle - 24.11.2016 - Cafè Albatross (Pisa)


The Gooch Palms + Unkle Funkle - 24.11.2016 - Cafè Albatross (Pisa)

Anticipo di weekend con concerto al Cafè Albatross.

Il via lo da Unkle Funkle. E' uno strano incrocio tra J Mascis e uno studente di Fisica disperso dentro ad un videogame di 30 anni fa. Con una spregiudicatezza ammirevole lancia "improbabili" basi al computer (i cui suoni fanno rivalutare quelli della Bontempi System 5), e con trasporto emotivo ed ardente passionalità regala delle toccanti reinterpretazioni di classici pop degli anni 80. Tre note di chitarra e due tonnellate di mancanza di pudore. Estrapolando dalle reazioni dei presenti: “se fossi ubriaco perso, questo sarebbe il concerto della vita!” 

Nel loro gusto per l'eccesso e per il kitsch, i Gooch Palms non sono assolutamente puro e semplice intrattenimento: suonano e lo fanno anche bene! Il duo australiano (doppia voce, chitarra per lui, rullante + timpano per lei) sembra in overdose da Coca Cola e gommosi orsetti fluo, da quanto suona americanamente esagerato e frizzante. Il loro garage-pop-punk'n'roll è caramelloso come zucchero filato (rosa!), ma non per questo suona banale. Anzi! Sarà per l’indole punkeggiante alla Ramones, oppure per certi passaggi che odorano di indie americano anni '80, sempre al limite tra melodia catchy e sottile dissonanza lo-fi, o - ancora - sarà per il loro tiro, fatto sta che vederli dal vivo merita, e non poco!
[E.R.+R.T.]
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The Gooch Palms + Unkle Funkle - 11.24.2016 - Cafè Albatross (Pisa)

Pre-weekend party with a concert at Cafè Albatross.

Unkle Funkle, first of all. He is a strange crossbreed between J Mascis and a Physics student lost in a 30 years ago videogame. With admirable audacity he launches "improbable" bases (whose sounds are reassessing those of Bontempi System 5), and with emotional ardor and passion he performs touching reinterpretations of 80s pop classics. Three guitar notes and two tons of shamelessness. Extrapolating from the reactions of those present: "If I were completely wasted, this would be the best concert of my life!" 

In their taste for excess and kitsch, The Gooch Palms are definitely not pure and simple entertainment: they do play and they do it well! The Australian duo (two voices, guitar for him, floor tom + snare drum for her) seems to have an overdose of Coca Cola and fluo bear-shaped gummy candies, considering how much exaggerated, bubbly, sparkling they sound. Their garage-pop-punk'n'roll is sugary as (pink!) cotton candy, but it sounds by no means trite. On the contrary! Maybe for the punkish nature à la Ramones, or thanks to some phrasings reminiscent of certain 80s American indie rock, constantly on the edge between catchy melody and subtle lo-fi dissonance, or maybe for their groove, the fact is that it is really worth to see them live!
[E.R.+R.T.]


martedì 6 dicembre 2016

The Golden Grass / Banquet /Wild Eyes / Killer Boogie ‎– Heavy Psych Sounds 4-Way Split Vol. 2


The Golden Grass/Banquet/Wild Eyes/Killer Boogie ‎– Heavy Psych Sounds 4-Way Split Vol. 2
(Heavy Psych Sounds, 2016)

Negli ultimi anni la ricerca del calore valvolare (perduto) è una missione intrapresa da molti musicisti nel tentativo di togliersi dalle orecchie i suoni compressi, ripuliti e riprocessati del rock nato a cavallo del cambio di millennio. I cultori di queste sonorità - e dell'epoca a cavallo fra gli anni '60 e '70 - trovano nella Heavy Psych Sounds un punto di riferimento e una fucina capace di sfornare ciò che le loro orecchie ricercano. Il nuovo assalto ai suoni moderni concepito dall’etichetta italiana è uno split a quattro, con canzoni esplicitamente vintage che potrebbero benissimo esser state pubblicate agli inizi dei '70. Se il primo capitolo di questa serie era uno split dedicato alla componente più “psych” delle uscite dell’etichetta romana, questo secondo capitolo è decisamente incentrato su quella più “heavy”. Lo space rock e la psichedelia bagnano e deformano ognuno dei 12 brani, ma non sono - stavolta - il centro di gravità che tiene coeso l’insieme. Il fulcro di tutto è infatti la ruvidità della chitarra, la quale riveste il classico ruolo portante basato su riff blues e assoli a perdifiato.

I Golden Grass partono dalla distorsione della sei corde per portarci, con continui cambi di direzione, nella luminosa California di fine anni '60, sciogliendo l’impeto hard rock in fluttuanti passaggi psichedelici, carichi dell’imprevedibilità tipica dell’improvvisazione pur essendo solidamente strutturati. 

Il padrone di casa (Gabriele Fiori), con i suoi Killer Boogie, invece preme al massimo sull’acceleratore del fuzz generando 3 roboanti scatti stoner. Le strade dei Fu Manchu incrociano la chitarra infuocata di Jimi Hendrix e l’energia degli  MC5: il risultato è ancor più esaltante di quello ottenuto con il disco d’esordio (Detroit, 2015).

Grazie ad una solida e dinamica sezione ritmica, i Wild Eyes hanno la possibilità di concedere spazio alle divagazioni soliste della chitarra e alla voce di Janiece Gonzalez, che pare ancor più energica di quanto il microfono riesca a sopportare.

I Banquet, ai quali è concesso l'ultimo lato di questo split, si lanciano in duelli chitarristici degni della prima New Wave of British Heavy Metal, arricchendoli di riverbero mantenendo così la patina psichedelica che contraddistingue ogni uscita dell'etichetta.

Adesso che la passione per l’epoca d’oro del rock è una tendenza imperante - ed è sempre più in agguato il rischio che lo spirito di genuinità che aveva generato tale rinascita venga meno - la Heavy Psych Sounds mostra i muscoli, pubblicando un album che possiede tutta la spontaneità e l'energia che hanno reso magica un'epoca.
[R.T.]

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The Golden Grass/Banquet/Wild Eyes/Killer Boogie ‎– Heavy Psych Sounds 4-Way Split Vol. 2
(Heavy Psych Sounds, 2016)

In the last few years the research for (lost) tube warmth is a mission undertaken by many musicians in an attempt to remove from their ears cleaned reprocessed compressed sounds typical of that rock born at the turn of the millennium change. Lovers of these sounds - and of the era at the turn of the 60s and 70s - find in Heavy Psych Sounds a reference point and a forge capable of churning out what their ears seek. The new assault on modern sounds conceived by the Italian label is a 4-way split, with explicitly vintage songs that could have been released in the early 70s. If the first chapter of this series was a split dedicated to the "psych" component of the Roman label, this second chapter is definitely focused on the "heavy" one. Space rock and psychedelia wet and deform each of the 12 tracks, but - this time - they are not the center of gravity holding together the whole. The cornerstone of everything is indeed the roughness of the guitar, which plays the classic main role based on blues riffs and solos at breakneck speed.

The Golden Grass start from the distortion of the six strings to bring us to late 60s bright California through constant changes of direction, melting hard rock strenght into floating psychedelic passages, full of the typical unpredictability of improvisation while being solidly structured.

Instead, with its Killer Boogie the host (Gabriele Fiori) pressed the fuzz accelerator to the maximum generating 3 incredible stoner hits. Fu Manchu roads crossed Jimi Hendrix fiery guitar and MC5 energy: the outcome is even more exciting than that of the debut album (Detroit, 2015).

Thanks to a solid and dynamic rhythm section, Wild Eyes have the possibility to grant space to the ramblings of solo guitar and to Janiece Gonzalez voice, which seems even more powerful than what the microphone can stand.

On the last side of this split, Banquet throw themselves in guitar duels worthy of the first NWBHM, enriching them with reverb thus maintaining the psychedelic patina distinguishing each label release.

Now that the passion for rock golden age is a dominant trend - and so it is increasingly lurking the risk that the spirit of authenticity that had generated such a revival fades away - Heavy Psych Sounds shows its muscles, releasing an album which owns all the spontaneity and energy that made such a magical era.
[R.T.]

sabato 3 dicembre 2016

Nerorgasmo + Marnero - 11.11.2016 - No Cage (Prato)


Nerorgasmo + Marnero - 11.11.2016 - No Cage (Prato)

L’hardcore old school non è un genere con il quale faccio colazione ogni mattina, lo ammetto. Però l’impeto che lo anima è affascinante, e anche un "profano" come me non può che drizzare le antenne alla notizia di un concerto dei Nerorgasmo. Merito del No Cage che è riuscito a riportare sul palco i torinesi - cosa più unica che rara visto che dal 1993 (data del loro scioglimento) han fatto solo 3 concerti.

Prima di loro, sul piccolo (e rinnovato rispetto alla stagione precedente) palco del locale pratese salgono i Marnero. La loro visione dell’hardcore è musicalmente agli antipodi rispetto a quella della storica band piemontese - e più vicina ai miei gusti (del resto sono un vecchio fan dei Laghetto, gruppo precedente del cantante/chitarrista JD Raudo e del batterista GJ Ottone). Negli ultimi tempi i Marnero sono diventati uno dei nomi di punta del post hardcore sperimentale e "progressivo" italiano. E con pieno merito. La loro violenza si nutre delle dissonanze del rock indipendente americano degli anni '80, velocizzate a rotta di collo e rese pesanti come macigni. Siamo dalle parti di Envy, Orchid e Converge ma la componente melodica - post rock - fa capolino in molti arpeggi, concedendo un po' di respiro prima di ogni successiva, immancabile, sfuriata. Musicalmente preparatissimi, attorcigliano i brani in strutture cervellotiche, ma mai ridondanti. Molti problemi tecnici e un JD Raudo visibilmente raffreddato non li aiutano stasera, ma chi è davanti al palco, in prima fila, è comunque strattonato dalla furia sprigionata dalla band.

Creste e borchie si lanciano in uno sfogo catartico fin dal primo attacco dei Nerorgasmo. Arretro per non rimanere travolto dal pogo, sudato e inarrestabile, del numeroso pubblico. Sinceramente rimango un po’ stordito dal continuo feedback che rimbalza nel locale durante il concerto della band torinese che - in puro spirito punk - sembra non preoccuparsi affatto dei suoni sballati (e distruttivi per i timpani). La chitarra di Simone Cinotto inanella i riff delle tiratissime canzoni che hanno fatto la storia dell’hardcore italiano (e non solo), ma a tratti suona un po’ troppo ovattata, e annichilita dai continui feedback. Due cantanti si alternano alla voce, omaggiando lo storico Luca “Abort” Bortolusso, morto per un’overdose di eroina nel 2000. Se Franz Goria dei Fluxus mostra la necessaria cattiveria, Luigi Bonizio degli Arturo pare invece afono, e contribuisce a stendere un velo di nostalgia sulla musica della band (nostalgia che gran parte del pubblico, scatenato, pare non percepire affatto).

Sarò un malinconico romantico, ma serate come questa mi lasciano l’idea che il passato non possa ritornare, e che il presente (perfettamente rappresentato dai Marnero) sia l’unica strada percorribile. Se non è spirito punk questo…!
[R.T.]
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Nerorgasmo + Marnero - 11.11.2016 - No Cage (Prato)

I do not have breakfast every morning with old school hardcore, I admit it. But its fury is fascinating and even a "layman" like me can only prick up his antennas at the news of a Nerorgasmo live show. All this thanks to No Cage which managed to bring the band from Turin back on stage - something which is more unique than rare, considering the fact that since 1993 (the year when they disbanded) they have performed live only three times.

Before them, Marnero get on the small (and renewed over the previous live season) stage of the Prato venue. Their hardcore vision is musically poles apart from that of the historic band from Piemonte - and closer to my musical taste (after all I am an old fan of Laghetto, the former band of singer/guitarist JD Raudo and drummer GJ Ottone). Recently Marnero have become one of the leading names of the Italian "progressive" experimental post hardcore. And this is fully deserved. Their violence is fed by the dissonance of 80s American independent rock, accelerated at breakneck speed and made heavy as boulders. We are on the same shores of Envy, Orchid and Converge, but the melodic - post rock - element peeps out in many arpeggios, giving a little breathing space before each subsequent, inevitable, outburst. Musically great, they twist their songs in convoluted structures, yer never redundant. Many technical problems and a JD Raudo visibly congested surely do not help the band tonight: but who is in front of the stage, in the first row, is anyway jerked from the fury unleashed by the band.

Mohawks and studs launched themselves in a cathartic outburst from the very first attack of Nerorgasmo. I move to the backlines to avoid being run over by the sweaty relentless mosh of the large audience. Honestly I am a bit stunned by the continuous feedback bouncing in the venue during the concert of the band from Turin which - in pure punk spirit - does not seem to worry at all of the faulty (and destructive to the eardrums) sounds. Simone Cinotto guitar plays the riffs of those songs which made the history of Italian (and not only) hardcore, but at times it sounds a bit too muffled and annihilated by the constant feedback. Two singers alternate on microphone, honoring the historical Luca "Abort" Bortolusso, died of a heroin overdose in 2000. If Franz Goria (Fluxus) shows the necessary evil, Luigi Bonizio (Arturo) seems almost hoarse and helps to draw a veil of nostalgia over the music  of the band (nostalgia that the gratest part of the audience seems to not perceive at all). I will be a melancholic romantic, but evenings like this leave me the idea that the past cannot return and that the present (perfectly represented by Marnero) is the only way forward. If this is not punk spirit ...!
[R.T.]


giovedì 1 dicembre 2016

Fuzz Orchestra - Uccideteli Tutti! Dio Riconoscerà I Suoi


Fuzz Orchestra - Uccideteli Tutti! Dio Riconoscerà I Suoi
(Woodworm, 2016)

"Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi". Se è pur vero che un libro non si giudica dalla copertina, è altrettanto vero che nessun altro titolo poteva cogliere meglio il  contenuto e l'atmosfera del quarto album della Fuzz Orchestra. Un senso di Apocalisse e fatale ineluttabile "dannazione" è ciò che pervade ogni singola nota di queste 8 canzoni del trio milanese. Lasciata (momentaneamente?) da parte la matrice più sociale e politica che animava i precedenti album, l'attenzione adesso è focalizzata su tematiche quasi filosofiche, o comunque di impronta quasi esistenzialista, con uno sguardo rivolto al tempo stesso al singolo individuo ed alla collettività - umanità - in senso ampio. Tutto questo emerge non solo dalla selezione di campionamenti cinematografici (da Todo Modo a Pasqualino Settebellezze, da Il Settimo Sigillo a Dune), ma anche (o soprattutto?) attraverso la musica stessa. Le trame della chitarra fuzz-noise di Luca Ciffo, unite alle (s)visioni del noisepiano di Fabio Ferrario e ai ripetuti, continui, attacchi della batteria metal-industrial di Paolo Mongardi, trascinano l'ascoltatore in un vortice buio, in cui si sofferma - disperso e stranito - a guardare sé stesso attraverso un buco, al tempo stesso spiando di traverso ciò che (o meglio: chi) lo circonda. Fondamentale, per la capacità di amplificare il potere immaginifico e la forza espressiva delle composizioni della Fuzz Orchestra, la collaborazione col compositore Enrico Gabrielli e l'ensemble cameristico degli Esecutori di Metallo su Carta. Le partiture e gli arrangiamenti del primo, nonché l'apporto strumentale dei secondi, non solo contribuiscono al respiro da colonna sonora dell'album, ma riescono perfino a rendere fisico il suono. Ascoltando Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi si ha come l'impressione di essere seduti nell'oscurità di un piccolo cinema, davanti ad un vecchio film (non più) muto, dal quale non si riesce a distogliere lo sguardo. Per me, uno dei dischi dell'anno.
[E.R.]
***

Fuzz Orchestra - Uccideteli Tutti! Dio Riconoscerà I Suoi
(Woodworm, 2016)

"Kill them all! God will recognize his sons" (literal translation of the album title). If it is true that you cannot judge a book by its cover, it is also true that no other title could have better pinpoint the content and the atmosphere of Fuzz Orchestra fourth album. A sense of Apocalypse and fatal unavoidable "damnation" is what permeates every single note of these eight songs of the trio from Milan. Set (temporarily?) aside the social and political issues of the previous releases, now attention is focused on almost philosophical themes, or at least with an almost existentialist approach, reflecting on both the individual and the humanity in its broadest meaning. All this emerges not only from the selection of movie samples (from Todo Modo to Pasqualino Settebellezze, from Det sjunde inseglet to Dune), but also (or especially?) through music itself. The weaves of Luca Ciffo fuzz-noise guitar, combined with the visions of Fabio Ferrario noisepiano and the repeated continuous attacks of Paolo Mongardi metal-industrial drums, drag the listener into a dark vortex, in which - lost and bewildered - he lingers to look at himself through a hole, at the same time spying askew what (or rather: who) surrounds him. Essential for its capacity to amplify the imaginative power and the expressive force of Fuzz Orchestra compositions, the collaboration with the composer Enrico Gabrielli and the chamber ensemble Esecutori di Metallo su Carta. The scores and arrangements of the first, and the instrumental contribution of the seconds, not only contribute to the "soundtrack" breath of the album, but they even manage to make its sound physical. Listening to Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi you get the feeling of sitting in the darkness of a small cinema, watching an old (no more) silent movie, from which you cannot look away. To me, one of the best albums of the year.
[E.R.]

domenica 27 novembre 2016

Holy Grove - Holy Grove


Holy Grove – Holy Grove
(Heavy Psych Sounds, 2016)

L’aria delle foreste attorno Seattle deve aver raggiunto Portland: gli Holy Grove hanno infatti i polmoni pieni dei suoni che imperversavano nello stato di Washington tra fine anni ‘80 e inizio ‘90. I riff massicci e poderosi - per quanto rallentati - del loro disco d’esordio possiedono quell’elasticità ben nota agli amanti di Badmotorfinger. Il seme dal quale scaturisce la musica degli Holy Grove è lo stesso che aveva generato i Soundgarden: l’hard rock oscuro di matrice blues dei primi anni ‘70, Black Sabbath e Led Zeppelin in testa. Ma se il gruppo di Chris Cornell reinterpretava le sue origini alla luce (oscura) del metal e del lato più pesante del rock indipendente americano degli anni ‘80, gli Holy Grove hanno assimilato la lezione delle assolate spiagge californiane e del groove tipicamente stoner che ne smuove le sabbie. Ma di Sole non ce ne è molto nei sette brani del loro omonimo album. Più facile rimanere abbagliati dai colori cangianti dell’aurora boreale che inonda di fredda luce psichedelica ogni canzone - oltre alla bellissima copertina. La presenza di una voce capace di guidare con autorità gli sviluppi della musica dimostra quanto il “bosco sacro” di Portland sia confinante con le oscure foreste di Seattle. E forse non è un caso se questa voce piena, potente, grintosa, capace di avventurarsi su tonalità alte senza perdere un briciolo di sporcizia e ruvidità, appartiene ad una donna (Andrea Vidal). Perché pur essendo gli Holy Grove una band che si bagna nel fiume della musica pesante del passato, è pienamente in linea con il tempo presente e con il ruolo nevralgico assunto dalle donne, ormai da qualche anno padrone quasi assolute del microfono. Che sia giunto il tempo per una nuova ondata di rock alternativo americano, stavolta guidato dalla voce femminile? Gli Holy Grove hanno tutte le carte in regola per potersi affiancare a Royal Thunder e soci in questa sfida.
[R.T.]
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Holy Grove – Holy Grove
(Heavy Psych Sounds, 2016)

The air of the forests around Seattle must have reached Portland: indeed Holy Grove have their lungs full of the sounds that were raging in Washington state in the late 80s and early 90s. However slow, the massive powerful riffs of their debut album have got that elasticity well known to Badmotorfinger lovers. Holy Grove music springs from the very same seed that generated Soundgarden: the bluesy obscure hard rock of the early 70s, especially Black Sabbath and Led Zeppelin. But if Chris Cornell band reinterpreted its origins in the (dark) light of metal and of the heaviest side of the American independent rock of the 80s, Holy Grove assimilated the lessons of the sunny beaches of California and the typical stoner groove stirring those sands. Yet there is not so much Sun in the seven songs of their self-titled album. Easier to be dazzled by the shimmering colors of the Northern Lights that floods each song – besides the beautiful cover – with its cold psychedelic light. The presence of a voice capable of driving with authority music developments shows how much the "holy grove" of Portland is bordering on the dark forests of Seattle. And perhaps it is no coincidence that this full powerful voice - able to venture on high notes without losing an iota of dirt and roughness - belongs to a woman (Andrea Vidal). Because even though Holy Grove are a band that bathes in the river of the heavy music of the past, they are fully in line with the present and with the crucial role played by women, for some years now almost absolute leaders of the microphone. Maybe it is time for a new wave of American alternative rock, this time led by female voice? Holy Grove have all they need to be side by side with Royal Thunder & co in this challenge.
[R.T.]

venerdì 25 novembre 2016

King Crimson - 09.11.2016 - Teatro Verdi (Firenze)


King Crimson - 09.11.2016 - Teatro Verdi (Firenze)

Il Re Cremisi è un monarca autoritario e un po' folle che domina l'universo del rock progressivo da quasi 50 anni. Fin dalla più tenera età ha mostrato curiosità e fantasia, modellando la musica a suo piacimento, come fosse un giocattolo. Per far questo, il suo alter ego in carne ed ossa - Robert Fripp - si è circondato di compagni di giochi sempre diversi, ma sempre contraddistinti da una forte personalità. E' un monarca talmente autoritario e folle che, con l'età, è arrivato al punto da assoldare delle guardie di nero vestite a vigilare sull'ordine perentorio imposto agli spettatori delle sue esibizioni, riguardo l'assoluto divieto di fare video e foto. 
Entrare nella Corte del Re è un passo che mette soggezione, soprattutto nell'aristocratico ambiente di un Teatro. Dal palchetto, l'impatto scenografico è maestoso: tre batterie in primo piano e, alle loro spalle, la tribuna per il resto della "famiglia reale". 

Che lo spettacolo abbia inizio.

Un gioco di specchi tra tamburi, piatti e assurde percussioni di ogni tipo è la prima apparizione. Disarmante e spiazzante fin dall'inizio, il gruppo affida il ruolo di incipit alle convulsioni cervellotiche di Larks' Tongues in Aspic. I tre tentacolari batteristi - Pat Mastellotto, Gavin Harrison e Jeremy Stacey - giocano con continui reciproci richiami, mostrando la loro complementarietà (tanto quadrato, preciso, potente Harrison quanto morbido e sperimentatore Mastellotto, mentre Stacey - che suona anche synth e tastiere - alterna la linearità del rock a passaggi più tipicamente jazz). Ancora senza fiato, come un trapezista appeso a dondolare a testa in giù, entro in un'altra epoca - fine anni ‘60 e inizio ‘70 - ma in realtà viaggio astratto rispetto al tempo convenzionale. 

Sembra impossibile che la storica band inglese riproponga, dopo tanti anni, suoni e atmosfere calde e avvolgenti come quelle dei loro primi album (1969-1971). Eppure - grazie ai fiati di Mel Collins, al mellotron di Fripp e alla voce scarna, melodica, (caratterizzata da un'intensa e calda vibrazione) di Jakko Jakszyk, - tutto diventa possibile. E reale. Peace: an End, The Letters, perfino una delle parti che compongono Lizard. Brani ricercati che brillano come gemme pregiate, nascoste in mezzo a classici ben più conosciuti.  Accanto a questi momenti morbidi, jazzati, coperti da una bruma tipicamente inglese, la band ripercorre le spirali ritmiche e ipnotiche del resto della carriera, in cui un'inarrestabile Tony Levin tiene testa, con il suo basso (o il chapman stick, all'occorrenza) ai tre batteristi.  

I riff frammentati e nervosi della seconda fase (1973-1974) assumono con naturalezza le forme di un jazz spigoloso e dissonante. Quelli degli anni '80 sono reinterpretati con nuova sensibilità (Jakko Jakszyk dona nuova vita ad Indiscipline, riscrivendo la melodia della voce, senza la minima intenzione di ricreare la schizoide fantasia di Adrian Belew), mentre i suoni ultramoderni caratterizzanti il periodo anni '90/'00 sono resi meno meccanici e schiaccianti, senza però perdere un briciolo di elettricità ed evidenziando un'inedita "componente umana". Ma oltre a riproporre brani tratti da quasi tutti i loro dischi, i King Crimson degli anni '10 giocano a sbriciolare e ricomporre la materia sonora (soprattutto la sua componente ritmica) così come farebbe una band jazz, proponendo nuovi frammenti - al momento inediti in studio - e dimostrando quanto un concerto dedicato principalmente a ripercorrere l'intera storia della band si basi ancora una volta sulla creatività. Creatività che consente di amalgamare sonorità e atmosfere apparentemente distanti tra loro, grazie a continue reinterpretazioni - non esclusivamente ritmiche (Easy Money, racchiuso nel suo guscio di rock deciso ed energico, ad esempio, contiene un lungo passaggio liquido e psichedelico guidato dalla chitarra di Fripp).

Il secondo dei due lunghi set che caratterizzano la serata si chiude con la crepuscolare atmosfera di Starless. La coda di dissonanze magiche, che si inseguono l’un l’altra è - insieme alla sontuosa rassegnazione di Epitaph - il momento più emozionante di un concerto memorabile. 

Ma prima che il Re Cremisi si eclissi, c’è ancora spazio per un bis: prima l'omaggio a David Bowie, con quella "Heroes" in cui Fripp naviga con la sua chitarra in oceani cosmici, e - infine - il brano da cui tutto è scaturito e in cui tutto torna a convergere: 21st Century Schizoid Man. Chi è entrato nella Corte del Re, questa sera, si è trovato al cospetto di un regnante vecchio e saggio, la cui follia è consapevolezza del delirio nel quale viviamo la nostra esistenza. 
[R.T.]

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King Crimson - 11.09.2016 - Teatro Verdi (Firenze)

The Crimson King is a bit crazy authoritarian monarch who has been dominating rock progressive universe for nearly 50 years. Since his childhood he has been showing curiosity and fantasy, shaping music as he pleases, as if it was a toy. To achieve his aim, his human alter ego – Robert Fripp – has constantly surrounded himself with always new playmates, yet always characterised by a strong personality. Indeed, he is such a crazy authoritarian monarch that, becoming older, he decided to engage black dressed guardians to prevent people in the audience to make videos or photos during his performances. To enter the Court of the King fills anyone with awe, especially if inside a Theatre. From my seat, the scenographic impact is majestic: three drums in the foreground and, behind them, the tribune for the rest of the “royal family”.

Let the show begin.

A hall of mirrors of drums, cymbals and every sort of percussions as first apparition. Disorienting from the very beginning, the incipit are Larks' Tongues in Aspic brainy convulsions. The three drummers - Pat Mastellotto, Gavin Harrison e Jeremy Stacey – play constantly recalling each other, showing their complementarity (Harrison is so much precise and powerful as Mastellotto is smooth and experimental, while Stacey – playing also synth and keyboards – alternates rock with jazz). Still breathless, I enter into another era – late 60s/early 70s – but to be honest I am travelling out of the conventional time.

It seems impossible that after so many years the historic English band plays again those incredible atmospheres of their first albums (1969-1971). Indeed, thanks to Mel Collins wind instruments, Fripp mellotron and Jakko Jakszyk melodic bare voice, everything becomes possible. And real. Peace: an End, The Letters, and even one of Lizard parts. Songs which shine as precious gems amongst ultra-famous classics. Together with this jazzy, smoothy moments covered in a typically English mist, the band retraces the rhythmic hypnotic spirals of the rest of its career, with an unrestrainable Tony Levin able to keep up with the three drummers thanks to his bass or chapman stick.

Fragmented nervous riffs of the second phase (1973-1974) naturally become a dissonant jazz. Those of the 80s are reinterpreted with new sensitivity (Jakko Jakszyk gives new life to Indiscipline, rewriting the melody of the voice, without the slightest intention of recreating the schizoid fantasy of Adrian Belew), while the ultra-modern sounds characterizing the 90s /00s have become less mechanical and overwhelming, yet without losing a shred of electricity and highlighting an unprecedented "human component". But besides playing songs from almost all their releases, 10s era King Crimson play to crumble and recompose the sound matter (especially his rhythmic component) as well as a jazz band would do, proposing new fragments - unreleased at this moment - and showing how much a concert mainly devoted to retrace the entire history of the band is based once more on creativity. Creativity that allows to mix together apparently distant sounds and atmospheres, thanks to continuous reinterpretations - not exclusively rhythmic (for example, Easy Money, enclosed in its shell of energic rock, contains a long liquid psychedelic phrasing led by Fripp guitar).

The second of the two long sets characterizing the evening ends with the twilight atmosphere of Starless. These magical dissonances following one each other are - along with the sumptuous resignation of Epitaph - the most exciting touching moment of a memorable concert.

But before the Crimson King eclipses, there is still time for an encore: a tribute to David Bowie, with that "Heroes" where Fripp sails with his guitar through cosmic oceans, and - finally - the song from which eveything originated and where everything returns to converge: 21st Century Schizoid Man. Who has entered the Court of the King this evening, found himself in the presence of an old wise ruler, whose madness is awareness of the delirium in which we live our existence.
[R.T.]

martedì 22 novembre 2016

Deadsmoke - Deadsmoke


Deadsmoke - Deadsmoke
(Heavy Psych Sounds, 2016)

Già dalla copertina, l'omonimo album dei Deadsmoke richiama alla mente un pesante (Ufo)mammut che si aggira ai piedi di un ghiacciaio. Riff pesantissimi e imponenti si muovono con lentezza estenuante, come un pachiderma peloso in cerca di cibo tra distese di rocce moreniche e neve. Il gelo avvolge sia le gigantesche montagne sia le canzoni della band - che proprio alle pendici delle montagne (dell'Alto Adige) si è formata. Siamo ad alta quota, in una notte di Gennaio. Sarà per il freddo - che intorpidisce e fa perdere la sensibilità - o per quel cielo stellato che ipnotizza, fatto sta che l'effetto di questa musica è stordente, con evidenti richiami al doom cosmico di scuola Electric Wizard e Sleep, oltre che Ufomammut.  L'ottundimento è inoltre amplificato da alcuni echi space rock che sembrano risuonare tra quelle montagne (complice anche lo special guest Gabriele Fiori ai synth - Black Rainbows, nonché Heavy Psych Sounds Records, etichetta della band bolzanina). Qualche rovinosa frana di massi, in puro stile post metal (Tornado), dona inoltre movimento ad un disco altrimenti monolitico. Il mammut dei Deadsmoke è un animale estinto e non aggiunge particolari novità alla fauna del presente: ma è talmente vivo da far gola a tutti i cacciatori di queste sonorità. Se poi si pensa che si tratta di un cucciolo (questo è infatti il disco d'esordio del trio) è tanta la curiosità di sapere cosa combinerà "da grande" quando si distaccherà dalle orme dei padri.
[R.T.]
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Deadsmoke - Deadsmoke
(Heavy Psych Sounds, 2016)

The cover itself of Deadsmoke selftitled album is reminiscent of a heavy (UFO)mammoth wandering at the foothills of a glacier. Heavy imposing riffs move with exhausting slowness, like a hairy pachyderm looking for food amongst morainic rocks and snow. Chill envelops both the gigantic mountains and the songs of the band - band formed exactly at the (South Tyrol) mountain slopes. We are at high altitude, in a January night. Maybe for the cold - which numbs and makes you lose sensitivity - or maybe for the hypnotizing starry sky, the fact is that the effect of this music is deafening, with clear references to the cosmic doom of Electric Wizard and Sleep school, as well as Ufomammut. Obtundation is also amplified by some space rock echoes that seem to resonate up in those mountains (also thanks to special guest Gabriele Fiori on synth - Black Rainbows and Heavy Psych Sounds Records, label of the band from Bolzano). And there is also some disastrous landslide of boulders in pure post metal style (Tornado), giving movement to an otherwise monolithic album. Deadsmoke mammoth is an extinct animal and does not add special news to the fauna of the present time: but it is so alive as to be extremely tasty for all the hunters of these sounds. And if you think that it is just a puppy (it is the trio's debut album indeed) you cannot wait to see what it will look like when "grown up" and detached from fathers footsteps.
[R.T.]

domenica 20 novembre 2016

Cough – Still They Pray


Cough – Still They Pray
(Relapse Records, 2016)

Cough. Tosse. Non potevano trovare un nome più adeguato alla loro musica, i quattro della Virginia. Il doom cosmico che caratterizza i 67 minuti del loro terzo disco ha infatti la repellente vischiosità del catarro che ingolfa i bronchi. Brani lunghi e fangosi che si trascinano lentamente, trovando a fatica un raggio di luce. La voce di Parker Chandler non è certo il ritratto della salute e, a tratti, raggiunge i versanti più putridi dello sludge (Possession, Masters of Torture). Riff pesantissimi e ossessivi, che, nonostante la loro monoliticità, mantengono un groove sinuoso (come se ondeggiassimo, completamente ubriachi, su un’altalena…prossimi a vomitare…). Non che la loro proposta sia particolarmente originale (l’influsso degli Electric Wizard è più che evidente, e non solo perché l’album è prodotto da Jus Oborn), ma i brani sono avvincenti, sia quando si dilatano in assoli di blues sporco carico di echi psichedelici (Shadow of the Torturer), sia quando si avventurano lungo direttrici maggiormente melodiche (Let It Bleed). Parker Chandler, divenuto bassista dei Windhand, ha portato alla corte dei suoi Cough Garrett Morris (che dei Windhand è chitarrista e produttore) per affiancare Oborn nelle fasi di lavorazione in studio. A differenza dei Windhand, però, qui non c'è alcuna sfumatura luminosa, perché siamo circondati dalle atmosfere tetre e viscide di un vecchio film splatter. Anche se il risultato non si discosta molto dai classici del genere, è sempre piacevole provare la sensazione di Regan MacNeil, posseduta dal demonio, che vomita in faccia a Padre Karras.
[R.T.]
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Cough – Still They Pray
(Relapse Records, 2016)

Cough. They could not find a more appropriate name to their music. The 67 minutes of cosmic doom of their third album owns the repellent stickiness of  mucus choking bronchial tubes. Long and muddy tracks slowly dragging themselves, finding  a ray of light with difficulty. Parker Chandler voice is certainly not the picture of health, and, at times, it reaches the most putrid side of sludge (Possession, Masters of Torture). Despite their monolithicity, the heavy obsessive riffs maintain a sinuous groove (as if we sway, completely drunk, on a seesaw ... close to vomit ...). Their music is not particularly original (the influence of Electric Wizard is evident and not only because the album is produced by Jus Oborn), but songs are compelling, both when dilate themselves in dirty blues solos full of psychedelic echoes (Shadow of the Torturer), and when venturing along melodic roads (Let It Bleed). Becoming Windhand bassist, Parker Chandler brought Garrett Morris (Windhand guitar player and producer) to the court of his Cough, to help Oborn in the processing steps in the recording studio. Differently from Windhand, here there is no shade of light, because we are surrounded by the gloomy and slimy atmosphere of an old splatter film. Although the result is not so different from the classic albums of the genre, it is always nice to experience the feeling of Regan MacNeil, possessed by the devil, vomiting in the face of Father Karras.
[R.T.]