lunedì 30 dicembre 2019

Top 20 Albums 2019



Our personal selection of the best 2019 albums, in alphabetical order:


[E.R. + R.T.]

sabato 28 dicembre 2019

Top 20 Live Concerts 2019


Our personal selection of live concerts seen in 2019, in chronological order:


[E.R. + R.T.]

giovedì 26 dicembre 2019

Top 5 Cover Artworks 2019


Our personal selection of cover artworks of 2019 albums, in alphabetical order:


  • Elder - The Gold & Silver Sessions (Artwork, Layout: Peder Bergstrand; Illustration: Max Löffler)
  • Hexvessel - All Tree (Cover polaroid photo: Bastian Kalous; Art Direction & Layout: Mat McNerney)
  • Inter Arma - Sulphur English (Cover photo: Kari Greer; Layout: Jacob Speis)
  • Kadavar - For the Dead Travel Fast (Photo by: Joe Dilworth)
  • Monkey3 - Sphere (Artwork: Sebastian Jerke)
[E.R. + R.T.]

martedì 24 dicembre 2019

Spirit Adrift – Divided by Darkness


Spirit Adrift – Divided by Darkness
(20 Buck Spin, 2019)

L’heavy metal è un enorme gioco di ruolo. Un mondo parallelo dove le regole della realtà sono ribaltate: il perdente può diventare leader, mentre il servo può finalmente essere padrone. Immedesimarsi nel guerriero forte e coraggioso o nel cavaliere elegante e astuto, che combattono con lealtà contro ingiustizie apparentemente insormontabili, è un gioco per fuggire dall’esclusione sociale imposta agli adolescenti bullizzati da una società cinica e in continua competizione. Ma anche per combattere i propri demoni interiori, che costringono all’isolamento. Non solo un gioco, quindi, ma una vera e propria autoanalisi, basata sulla volontà di affermazione della propria personalità, sul senso di giustizia e sul desiderio di riscatto. Mente del progetto Spirit Adrift, Nate Garrett crea un universo fantastico con l’intento di affrontare in modo catartico i demoni che lo hanno inghiottito fin dall’adolescenza, in particolare l’alcolismo e l’incapacità di integrazione. L’oscurità che Garrett si trova ad affrontare è quindi sia la società nella quale si trova a vivere, sia il lato oscuro di se stesso. Garrett si getta in una battaglia epica armato della spada di fuoco dell’heavy metal classico (Iron Maiden su tutti) e di quell’armatura solida ma sporca, ammaccata e mai troppo luccicante, tipica del power metal americano degli anni '80, con la consapevolezza malinconica e disillusa del doom metal con il quale il musicista di Phoenix è cresciuto (i padri ispiratori Black Sabbath, ma soprattutto i fratelli maggiori Pallbearer, di cui è stato amico e roadie). Con uno spettacolare e fantasioso heavy metal moderno, Divided by Darkness ci ricorda che le minoranze non devono farsi dividere dalle forze dell’oscurità, ma rimanere unite anche nella tempesta. L’unico modo per poter vincere la partita nel mondo fantastico del gioco di ruolo, ma anche nella realtà.
[R.T.]
*** 

Spirit Adrift – Divided by Darkness
(20 Buck Spin, 2019)

Heavy metal is a gigantic role-playing game. A parallel world where the rules of reality are reversed: the loser can become leader, while the servant can finally be master. Identifying yourself in the strong and courageous warrior or in the elegant and astute knight, who fight with loyalty against apparently insurmountable injustices, is a game to escape from the social exclusion imposed on adolescents bullied by a cynical and constantly competing society. But also to fight those inner demons, which force isolation. Not just a game, therefore, but a real self-analysis, based on the will to affirm your personality, on the sense of justice and on the desire for redemption. Mind of the Spirit Adrift project, Nate Garrett creates a fantastic universe with the aim of cathartically addressing the demons that have engulfed him since adolescence, in particular alcoholism and the inability to integrate. The darkness that Garrett is facing is therefore both the society in which he lives, and his own inner dark side. Garrett throws himself into an epic battle armed with the sword of fire of classic heavy metal (Iron Maiden above all) and with that solid but dirty armor, dented and never too shiny, typical of 80s American power metal, with the melancholic and disillusioned awareness of the doom metal with which the Phoenix musician grew up (the inspiring fathers Black Sabbath, but above all the older brothers Pallbearer, of whom he was a friend and roadie). With a spectacular and imaginative modern heavy metal, Divided by Darkness reminds us that minorities must not be divided by the forces of darkness, yet  they have to stay united even in the storm. The only way to win the game in the fantasy world of role-playing, but also in reality.
[R.T.]

sabato 21 dicembre 2019

Ty Segall & Freedom Band ‎– Deforming Lobes


Ty Segall & Freedom Band ‎– Deforming Lobes
(Drag City, 2019)

E’ impossibile riuscire a riprodurre su disco l’energia sprigionata in un concerto dal vivo. Con tutto il suo carico di emozioni e sensazioni, un’esperienza vissuta in prima persona non è riproducibile su di un supporto materiale. Per questa ragione, da appassionato di concerti vissuti sotto al palco, non mi interesso quasi mai ai dischi live. Eppure, ci sono casi in cui una registrazione riesce a raccogliere, almeno in parte, quell’energia grezza che sgorga dagli amplificatori, quel flusso impreciso, viscerale e fantasioso che nessun disco concepito in studio possiederà mai. Deforming Lobes è uno di questi rari dischi. Riproduzione parziale, adattata alle casse dello stereo di casa, di un’esplosione di energia elettrica incontenibile, che schizza in ogni direzione, deformando con muraglie di fuzz e schegge di rumore le melodie psichedeliche delle canzoni di Ty Segall. Chi ha assistito ad un suo concerto con la Freedom Band a fargli da spalla, sa di cosa stia parlando. Chi non vi ha mai assistito, può farsene un’idea abbastanza precisa con questo grande disco in cui Steve Albini si conferma maestro nel saper cogliere - e riprodurre - gli spigoli e le asperità della musica dal vivo. Sempre di una riproduzione parziale si tratta, ma decisamente vicina alla realtà. Oltre a cogliere in modo piuttosto fedele il “momento” (non inteso come documentazione di un particolare concerto, ma come rappresentazione del vortice sonoro prodotto dalla Freedom Band), Deforming Lobes offre una rielaborazione inedita, ed esaltante, della musica di Ty Segall, con particolare attenzione ad alcuni brani meno conosciuti. Una musica che qui suona libera da ogni vincolo strutturale e armonico, lasciandosi andare a lunghe improvvisazioni rumorose, ma anche a sfuriate in cui il garage rock diventa punk vero e proprio, mentre la psichedelia colorata assume un tono greve, rendendo questo album assolutamente unico nella sterminata discografia dell'artista californiano. Unico e imprescindibile.
[R.T.]
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Ty Segall & Freedom Band ‎– Deforming Lobes
(Drag City, 2019)

It is impossible to reproduce on recordings the energy released during a live concert. With all its load of emotions and sensations, an experience lived in first person cannot be reproduced on a material support. For this reason, being a fanatic of concerts lived under the stage, I hardly ever care about live records. Still, there are cases in which a recording manages to collect, at least in part, that raw energy that flows from amps, that inaccurate, visceral and imaginative flow that no album conceived in the studio will ever possess. Deforming Lobes is one of these rare records. Partial reproduction, adapted to the speakers of the home stereo, of an explosion of irrepressible electricity, which splashes in every direction, deforming the psychedelic melodies of Ty Segall's songs with walls of fuzz and splinters of noise. Anyone who has attended one of his concert with the Freedom Band as his support band, he knows what I am talking about. Those who have never attended it, they can get a fairly precise idea with this great album in which Steve Albini confirms himself master in knowing how to catch - and reproduce - the edges and the roughness of live music. It is still a partial reproduction, but definitely close to reality. Not only it seizes quite faithfully the "moment" (moment not intended as documentation of a particular concert, but as a representation of the sound vortex produced by the Freedom Band): Deforming Lobes offers an unprecedented and exciting reworking of Ty Segall's music, with particular attention to some lesser known songs. A music that here plays free from any structural and harmonic constraints, letting itself go to long noisy improvisations, but also to outbursts in which garage rock becomes punk, while the coloured psychedelia takes on a heavy tone, making this album absolutely unique in the endless discography of the Californian artist. Unique and essential.
[R.T.]

mercoledì 18 dicembre 2019

Nebula - 03.10.2019 - The Cage (Livorno)


Nebula - 03.10.2019 - The Cage (Livorno)

Per raccontare questa storia parto dal finale. Uno di quei finali tristi che il cinema americano non avrebbe mai il coraggio di mettere in scena. Gli americanissimi Nebula, dopo poco più di un'ora di concerto, tornano sul palco acclamati tiepidamente dai pochi presenti e si preparano per il bis in un locale i cui ampi spazi vuoti ricordano i deserti americani dei film western. Eddie Glass prende la sua chitarra, accenna un riff, ma qualcosa non funziona. Cerca di capire come mai il suo amplificatore non suoni come dovrebbe, chiede aiuto, ma non ottiene risposta. Dalle profondità del Cage nessuno - assolutamente nessuno - si muove. Né fonico, né tecnico, né membri dello staff del locale. Nessuno. Glass, confuso, gira a vuoto sul palco. In un silenzio surreale chiede ancora che qualcuno venga a dargli una mano. Si percepisce il verso degli avvoltoi che volano sopra la carcassa dei Nebula, in questo deserto. Glass e i suoi compagni si arrendono. Non ci sarà nessun duello finale in stile western. Nessuno arriva in loro soccorso. Il deserto li inghiotte e li fa sparire nel silenzio generale. 

Ma come era iniziata questa storia? Lentamente, come una rilassata cavalcata tra i cactus. Con inattesa lentezza i Nebula hanno iniziato il loro concerto, jammando, lasciandosi andare ad un naturale crescendo. Durante i primi minuti la band si è dovuta mettere a fuoco. Poi si è lanciata a galoppo nei sabbiosi deserti del suo stoner rock, per raggiungere quella torre di lancio nascosta nel canyon, dalla quale raggiungere le stelle. La traiettoria del viaggio cosmico non è stata lineare. Né la velocità è stata costante. Riffoni propulsivi hanno spinto l'astronave a velocità supersonica, ma spesso si sono poi frammentati in un pulviscolo di assoli. Una nebulosa di gas e polveri psichedeliche in cui è difficile trovare l'orientamento. Anzi, direi che è proprio sbagliato cercarlo. Perché Eddie Glass (ormai unico membro storico della band, dopo l'abbandono del bassista Tom Davies) suona istintivamente, senza alcun progetto di ingegneria aerospaziale alle spalle. Nonostante la batteria potentissima e quadrata di Michael Amster (già membro degli psichedelici Blaak Heat) mantenga la traiettoria, Glass dirige la navicella spaziale in base al momento, al "qui e ora". Questo rende la musica complessa, a tratti confusa, ma anche genuina, vera, imprevedibile e coinvolgente. Basta abbandonarvisi, e percepire l'emotività e il calore della voce di Glass (una versione ubriaca di Mark Arm dei Mudhoney) o la bruciante urgenza espressiva dei suoi assoli. Alla fine la navicella si perde in una tempesta di asteroidi, e atterra nel deserto desolato che raccontavo all'inizio. Un finale triste, certo, ma forse anche il più naturale, vista l'imprevedibilità del pilota e l'inesistente spirito di collaborazione (anzi, direi proprio di disinteresse) del pianeta sul quale è atterrato.
[R.T.]

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Nebula - 10.03.2019 - The Cage (Livorno)

To tell this story I begin from the end. One of those sad endings that American cinema would never have the courage to stage. After a one hour concert, Nebula return on stage mildly acclaimed by the few present and prepare themselves for the encore in a venue whose large empty spaces recall the American deserts of western movies. Eddie Glass takes his guitar, outlines a riff, but something doesn't work. He tries to understand why his amp doesn't sound like it should, he asks for help, but he gets no answer. From the depths of the Cage nobody - absolutely nobody - moves. Neither the sound engineer, nor members of the staff of the venue. Nobody. Confused, Glass wanders on stage. In a surreal silence he still asks for someone to come and give him a hand. It's like feeling vultures flying over Nebula carcass in this desert. Glass and his fellows surrender. There will be no final duel in western style. Noone comes to their rescue. The desert swallows them up and makes them disappear in general silence.

But how did this story begin? Slowly, like a relaxed ride among cacti. With unexpected slowness Nebula started their concert, jamming, letting themselves go into a natural crescendo. During the first few minutes the band had to autofocus. Then they galloped off into the sandy deserts of their stoner rock, to reach that launching tower hidden in the canyon, from which to reach the stars. The trajectory of the cosmic journey was not linear. Nor constant was the speed. Propulsive riffs pushed the spaceship to supersonic speed, but often they fragmented themselves into a dust of solos. A nebula of gas and psychedelic dust in which it is difficult to be orientes. Actually, I'd say it's wrong to look for a direction. Because Eddie Glass (now the only historical member of the band, after the departure of bassist Tom Davies) plays instinctively, without any aerospace engineering project behind him. Though Michael Amster's (former member of the psychedelics Blaak Heat) powerful and precise drums maintains the trajectory, Glass directs the spaceship looking at the moment, at the "here and now". This makes the music complex, sometimes confused, but also genuine, true, unpredictable and engaging. Just abandon yourself, and perceive the sensitivity and warmth of Glass's voice (a drunken version of Mark Arm, of Mudhoney) or the burning expressive urgency of his solos. In the end the spaceship gets lost in a storm of asteroids, and it lands in the desolate desert that I told you at the beginning of this story. A sad end, certainly, but perhaps also the most natural one, given the unpredictability of the pilot and the nonexistent spirit of collaboration (or rather, I would really say, of lack of interest) of the planet on which he landed.
[R.T.]

lunedì 16 dicembre 2019

Helmet – 28.09.2019 – Bloom (Mezzago, MB)


Helmet – 28.09.2019 – Bloom (Mezzago, MB)

Se l’air guitar è lo sport da cameretta preferito da ogni metallaro, l’air drum è una disciplina ancor più esaltante alla quale nessun ascoltatore di musica pesante può sottrarsi. E se esiste una band che pare esser nata appositamente per le olimpiadi di air drum, quella sono gli Helmet. Nessuno ha mai avuto un groove più esaltante di loro, nessuno. E anche se John Stanier, batterista dei dischi storici degli anni '90 e principale artefice di quel moto ritmico convulso e trascinante che caratterizza la loro musica, non è più nella formazione da un pezzo, non posso mancare al tour del trentennale della band. 

Il concerto di stasera, per me, è una vera e propria competizione di "batteria immaginaria", alla quale partecipo con spirito agonistico, senza risparmiare la minima goccia di sudore.

La benzina che mette in moto i partecipanti alla gara (per lo più reduci del grunge e del noise rock degli anni '90, ma non per questo nostalgici) sono i riff staccati di Page Hamilton. La sua chitarra è una molla, e lui la deforma fino a fargli accumulare un'energia spaventosa, per poi liberare la tensione con elasticità ritmica travolgente. Hamilton è una via di mezzo tra un professore di fisica del liceo e un operaio specializzato che maneggia alla perfezione i macchinari del suo lavoro. Il palco è un laboratorio dove Hamilton sperimenta l'elasticità della sua molla, arrugginita da dissonanze e rumore. Ma è anche un banco da lavoro su cui costruisce giocattoli, per i quali tutti noi bambini degli anni '90 andiamo matti.  Questi giocattoli non sarebbero sufficienti a farci scatenare in una gara di air drum se alla batteria non fosse seduto qualcuno all'altezza. Nella band dal 2006, Kyle Stevenson ha fatto suo il posto che fu di Stanier. E con la sua prestazione straordinaria, dimostra di meritarselo alla grande!

In alcuni momenti la voce pulita non suona precisissima (ad esempio in alcuni cori a più voci), ma questo non influisce minimamente sull'energia del concerto. Dopo 30 anni di carriera, Hamilton e i suoi Helmet sono ancora in grado di unire precisione ritmica matematica e imprevedibilità.

Esco dal Bloom sudato zuppo. Non son sicuro di aver vinto la gara di air drum, ma i dolori al collo e alla schiena che avrò per un paio di giorni dimostrano quanto abbia dato tutto me stesso. E quanto gli Helmet siano grandiosi.
[R.T.]
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Helmet – 09.28.2019 – Bloom (Mezzago, MB)

If air guitar is the favourite bedroom's sport for any metalhead, air drum is an even more exciting discipline to which no heavy music listener can escape. And if there is one band that seems to have been created expressly for air drum Olympics, that band is called Helmet. No one has ever had a more exciting groove than them. And even if John Stanier - drummer in their 90s historical records and the principal architect of that convulsive driving rhythmic motion typical of their music - is no longer in the lineup since a long time, I cannot miss the thirty-year anniversary tour of the band.
Tonight concert, for me, is a real "imaginary drums" competition, in which I take part with agonistic spirit, without saving the slightest drop of sweat.

Page Hamilton riffs are the fuel that drives the participants in the race (mostly veterans of 90s grunge and noise rock, but not of the nostalgic kind). His guitar is a spring, and he deforms it until it accumulates a frightening energy, to then release the tension with overwhelming rhythmic elasticity. Hamilton is a crossbreed between a high school physics professor and a skilled worker who perfectly handles the machinery of his work. The stage is a laboratory where Hamilton experiences the elasticity of his spring, rusted by dissonance and noise. But it is also a workbench on which he builds toys, for which all of us 90s children go crazy. These toys would not be enough to make us unleash in an air drum contest if there was not the right one on the drums. In the band since 2006, Kyle Stevenson has taken over the place that was Stanier's one. And with his extraordinary performance, he proves to deserve it!

In some moments the clean voice does not sound extremelyy precise (for example in some multi-voice choirs), but this does not affect the energy of the concert. After 30 years of career, Hamilton and his Helmet are still able to combine mathematical precision and unpredictability.

Super-sweaty I leave the Bloom. I'm not sure I won the air drum race, but a couple of days of pain in my neck and back proves I gave it my all. And how great Helmet are.
[R.T.]

giovedì 5 dicembre 2019

Mike Patton Mondo Cane – 31.08.2019 – Piazza Duomo (Prato)


Mike Patton Mondo Cane – 31.08.2019 – Piazza Duomo (Prato)

Mike Patton ti prende per il culo. Da sempre. Nei primi anni '90 non lo sopportavo. Non mi capacitavo di come Digging the Grave e Squeeze me Macaroni fossero cantate dalla stessa persona. Ero un “metallaro del cazzo”: permaloso e con poco senso dell’ironia. Poi ho imparato a stare al suo gioco, e ho iniziato a divertirmi di fronte a quasi tutte le maschere che si cuciva addosso. Quella da italo-americano “intrallazzone” anni '50/'60 la amo particolarmente. Forse perché è un travestimento che gli riesce naturale. Talmente naturale che non sembra neanche un travestimento. Stasera ce lo ripropone, a più di dieci anni dalla sua prima apparizione nei teatri italiani (e a nove dal disco Mondo Cane, con il quale omaggiava la musica leggera italiana del passato). E forse, visto il progredire dell’età, il risultato supera le già altissime aspettative. Si, perché non c’è niente di più ambiguo e “ammaniglione” di un cinquantenne con la "pancetta" sotto la giacca, e la faccia un po' gonfia sotto agli occhialini. Un cinquantenne che non sembra in perfetta forma fisica, ma che è brillante e divertente con il suo pubblico, come un esperto intrattenitore da pianobar di nave da crociera. L’umorismo cinico, con il quale prende per il culo il suo ruolo (oltre ai presenti), è puro Pattonismo dadaista che dissacra anche se stesso. Dopo alcuni anni lontano dal nostro paese, il suo italiano è un po' zoppicante e la pronuncia assurdamente divertente: una sorta di Mal dei Primitives ubriaco (omaggiato con Yeeeeeh!, nota al pubblico nazionalpopolare come “I tuoi occhi sono fari abbaglianti e io ci sono davanti”). Anche alcuni testi si trasformano in strani gorgheggi, che alcuni puristi della musica leggera italiana potrebbero considerare un affronto. In questa opera di demolizione (ma anche di omaggio convinto) del fascino del latin lover, in favore di una parodia dell’italiano sempre più lontana da Gian Maria Volontè e vicina a Tomas Milian, Patton ci regala uno dei suoi migliori concerti tra i tanti ai quali ho assistito. La sua voce è splendida, calda e potente, e riesce a sprigionare al tempo stesso energia e romanticismo, ma sempre con la sua tipica ironia. L’enfasi passionale dei brani di Modugno, Buscaglione, Tenco, Mina e degli altri nomi storici della musica italiana prende vita grazie anche all’orchestra della Camerata Strumentale «Città di Prato» e al theremin di Vincenzo Vasi, fondamentali tanto quanto la voce nel ricreare atmosfere di un’altra epoca. E quando tutto sembra finito, Retrovertigo dei Mr Bungle mostra quanto la strada tra la Penisola del dopo guerra e l’America immaginata da Patton negli anni '90 sia meno lunga di quanto immaginavamo. Con la speranza che possa di nuovo essere percorsa dalla creatività di Mike.
[R.T.]

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Mike Patton Mondo Cane – 08.31.2019 – Piazza Duomo (Prato)

Mike Patton takes the piss out of you. Always. In the early 90s I couldn't stand it. I couldn't understand how Digging the Grave and Squeeze me Macaroni were sung by the same person. I was a "metallaro del cazzo": touchy and with little sense of irony. Then I learned to play his game, and I started having fun in front of almost all the masks he sewed on himself. I particularly love the 50s/60s Italian-American "wheeler-dealer". Perhaps because it is a natural disguise. So natural that it doesn't even look like a disguise. Tonight he proposes it again, more than ten years after his first appearance in Italian theaters (and after nine from Mondo Cane, with which he honoured the Italian pop music of the past). And maybe, given the years passing by, the result exceeds the already very high expectations. Yes, because there is nothing more ambiguous of a fifty year old fixer with his "tummy" under the jacket, and a bit plumpy face beyond the glasses. A fifty-year-old man who does not seem to be in perfect physical shape, but who is brilliant and funny with his audience, like an experienced cruise ship piano bar entertainer. The cynical humor, with which he takes the piss out of his role (in addition to those present), is pure Dadaist Pattonism that desecrates itself too. After a few years away from our country, his Italian is a bit limping and the pronunciation absurdly funny: a sort of drunken Primitives' Mal (honored with Yeeeeeh!, known to the national-popular audience as "I tuoi occhi sono fari abbaglianti e io ci sono davanti"). Even some lyrics turn into strange trills, which some purists of Italian pop music might consider a snub. In this work of demolition (but also of convinced homage) of the charm of the Latin lover, in favour of a parody of the Italian more and more distant from Gian Maria Volontè and closer and closer to Tomas Milian, Patton gives us one of his best concerts among the many which I attended. His voice is amazing, warm and powerful, and he manages to release at the same time energy and romanticism, but always with his typical irony. The passionate emphasis of the songs by Modugno, Buscaglione, Tenco, Mina and the other historical names of Italian music comes to life also thanks to the orchestra of the Camerata Strumentale "Città di Prato" and to Vincenzo Vasi theremin, both of them as much fundamental as Mike Patton voice to recreate the atmosphere of another era. And when it all seems to be over, Mr Bungle's Retrovertigo shows us how the road between the post-war Peninsula and America imagined by Patton in the 90s is less long than we imagined. With the hope that it can again be crossed by Mike's creativity.
[R.T.]

martedì 3 dicembre 2019

Monkey 3 – Sphere


Monkey 3 – Sphere
(Napalm Records, 2019)

Il momento in cui la nebbia gassosa che apre Prism è squarciata da un fascio di luce melodica, letteralmente epica e grandiosa. Quello è l’istante nel quale realizzo il balzo nell’iperspazio fatto dai Monkey 3 con il loro nuovo disco. Nitido, luminoso, di un’abbagliante chiarezza. Un salto verso uno stato quantico apparentemente irraggiungibile. Abbandonato l’ambiente a gravità 0 caro allo space rock più ipnotico, gli svizzeri compongono un disco di progressive rock fantascientifico, che guarda con lucidità e determinazione al di là delle spirali psichedeliche, utilizzando come manuale di istruzioni quanto scritto dai Pink Floyd mezzo secolo fa. Se in alcuni passaggi gli ampi spazi creati dalla band possono trasmettere un senso di vertigine, in generale la cloche di comando dell’astronave è sempre saldamente in mano ai suoi piloti, che ci guidano attraverso galassie, lungo traiettorie ben definite. L’enfasi emotiva, quasi cinematografica, delle sei nuove composizioni strumentali, è funzionale alla costruzione del climax. Un decollo perfetto, calcolato con precisione ingegneristica. Un volo insensibile alle turbolenze, come quello di un drone il cui movimento iperstabilizzato consente riprese ferme e a fuoco. La conclusiva Ellipsis rappresenta la fuoriuscita dall’atmosfera e, con il suo incedere ossessivo nel vuoto cosmico, stordisce come i cari e vecchi dischi dei 35007, prima di esplodere in bordate di distorsione tooliana, donando quell’imprevedibilità che qualsiasi viaggio nello spazio necessita.
[R.T.]
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Monkey 3 – Sphere
(Napalm Records, 2019)

The moment when the gaseous fog opening Prism is broken by a beam of melodic light, literally epic and magnificent. That is the instant in which I realize the jump into the hyperspace made by Monkey 3 with their new record. Sharp, bright, with a dazzling clarity. A leap towards a seemingly unattainable quantum state. Abandoning the gravity 0 environment dear to the most hypnotic space rock, the Swiss compose a sci-fi progressive rock record, which looks with lucidity and determination beyond psychedelic spirals, using as an instruction manual what Pink Floyd wrote half a century ago. If in some passages the wide spaces created by the band can convey a sense of vertigo, on the whole the spacecraft's control cloche is always firmly in the hands of its pilots, who guide us through galaxies, along well-defined trajectories. The emotional, almost cinematographic, emphasis of the six new instrumental compositions is functional to the construction of the climax. A perfect take-off, calculated with engineering precision. A flight that is insensitive to turbulence, like that of a drone whose hyper-stabilized movement allows for steady and focused shots. The final Ellipsis represents the escape from the atmosphere and, with its obsessive gait in the cosmic void, it stuns like the old but gold 35007 records, before exploding in Tool-like distortion shots, giving that unpredictability that any space travel needs.
[R.T.]