martedì 31 marzo 2020

Messa + Zambra + Metide – 01.11.2019 – Il Contro (Prato)


Messa + Zambra + Metide – 01.11.2019 – Il Contro (Prato)

Sembra trascorsa una vita. Un venerdì sera con gli amici, in un locale, per un concerto. Ora che tutto questo è impossibile, sembra lontanissimo. Ma ciò che lo rende davvero distante è l'incertezza nei confronti del futuro. Non sappiamo quando tutto questo potrà accadere di nuovo. E non sappiamo quale impatto avrà questa crisi sul mondo della cultura e dello spettacolo. Affinché la musica indipendente possa trovare un rifugio nel quale esprimersi, mentre infuria la tempesta e soprattutto quando questa sarà passata, è necessario che chi crede in lei continui a supportarla. Perché luoghi come Il Contro, e band italiane di assoluto valore come quelle che vi hanno suonato il primo giorno di novembre, possano sopravvivere, serve il sostegno di tutti.

La musica post apocalittica dei Metide è perfetta per queste tristi riflessioni nostalgiche. Il loro post metal atmosferico, che ha fatto letteralmente vibrare le mura del locale di Prato, possiede forza dirompente, ma anche calma malinconica. Seguendo i sentieri tracciati dagli Isis, tra muri di distorsione (forse a tratti un po' troppo gonfi di bassi) e arpeggi che si inseguono tra echi e riverberi, tra growl esplosivo e melodiche (forse un po' troppo per i miei gusti) voci pulite, la band di Bergamo evoca in modo vivido e coinvolgente una tempesta ed i suoi effetti. Quando ancora nessuno immaginava che questa si sarebbe davvero abbattuta su di noi.

Gli Zambra, che avevo già avuto modo di apprezzare sullo stesso palco, ci sputano in faccia il loro noise rock fatto di chiodi arrugginiti, dissonanze, grida, groove disarticolato, pezzi di cemento sbriciolato, droni ipnotici e voci che suonano come un didjeridoo. Sensazioni sgradevoli che nascondono un nucleo melodico ed un'energia non convenzionali. Come nascondersi sottoterra, in un rifugio antiatomico pericolante, mentre fuori il mondo collassa. Proprio ciò di cui la musica indipendente avrà bisogno per poter sopravvivere.

I Messa hanno un approccio più spirituale all'apocalisse. Riletto con il senno di poi, il loro concerto è un requiem. Tra nebbie gotiche e tremolanti luci melodiche che paiono provenire dal dark sound progressivo degli anni ‘70, i Messa evocano spiriti che in Italia parevano sepolti da troppi anni. Le catacombe del doom sono illuminate da assoli liberi e fluidi, ai limiti del jazz, e dalla splendida voce di Sara, vera e propria torcia in grado di indicare la via nell'oscurità. Anche se stasera la loro musica non è particolarmente valorizzata dall’acustica del locale, i Messa si confermano comunque una perla unica, da custodire gelosamente. Una delle band italiane più affascinanti degli ultimi anni, che dobbiamo imparare a valorizzare, così come avviene all'estero, dove trova meritatamente spazio nel cartellone dei migliori festival.

A ricordarla oggi, quella serata sembra provenire da un'altra epoca. Sta a noi renderla ancora attuale. E sta a noi donarle quel sostegno che anche ai tempi era indubbiamente insufficiente. Sta a noi inoltrarci in quel rifugio antiatomico, o in quella catacomba, in cui il rock indipendente italiano è nascosto in attesa di tornare all'aperto, quando la tempesta sarà passata.
[R.T.]

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Messa + Zambra + Metide – 11.01.2019 – Il Contro (Prato)

A life seems to have passed. A Friday evening with friends, in a music club, for a concert. Now that all this is impossible, it seems something so far away in time and space. But what makes it truly distant is the uncertainty about the future. We don't know when all this will happen again. And we don't know what impact this crisis will have on the world of culture and entertainment. In order for independent music to find a refuge in which to express itself, while the storm rages and especially when it will be passed, those who believe in it must continue to support it. For places like Il Contro, and for Italian bands of absolute value such as those that played there on the first day of November, to survive, everyone's support is needed.

Metide post apocalyptic music is perfect for these sad nostalgic reflections. Their atmospheric post metal, which literally made the walls of the club vibrate, has disruptive strength, but also melancholy calm. Following the paths traced by Isis, among distortion walls (perhaps at times a bit too saturated with basses) and arpeggios chasing each other between echoes and reverberations, among explosive growl and (maybe a little too much for my tastes) melodic clean vocals, the band from Bergamo evokes a storm and its effects in a vivid and involving way. When still no one imagined that this would have really hit us.

Zambra, which I already had the opportunity to appreciate on the same stage, spit their noise rock made of rusty nails, dissonances, screams, disjointed grooves, pieces of crumbled concrete, hypnotic drones and voices that sound like a didjeridoo. Unpleasant sensations that hide an unconventional melodic core and energy. How to hide underground, in a dangerous fallout shelter, while outside the world collapses. Just what independent music will need to survive.

Messa have got a more spiritual approach to the apocalypse. Re-read in hindsight, their concert is a requiem. Between gothic mists and flickering melodic lights that seem to come from the progressive dark sound of the 70s, Messa evoke spirits that in Italy seemed to have been buried for too many years. The doom catacombs are lit by free and fluid solos, on the borders of jazz, and by Sara amazing voice, a real torch capable of showing the way in the dark. Even if their music is not particularly enhanced by the acoustic of the venue tonight, Messa anyway confirm to be a unique pearl, to be jealously guarded. One of the most fascinating Italian bands of the last few years, which we must learn to value, as it happens abroad, where they deservedly find their place in the bill of the best festivals.

Remembering it today, that evening seems to come from another era. It is up to us to make it still relevant. And it is up to us to give it that support which was undoubtedly insufficient even at the time. It's up to us to go to that fallout shelter, or in that catacomb, where Italian independent rock is hidden waiting to return to the open, when the storm will be over. 
[R.T.]



lunedì 16 marzo 2020

Desertfest Antwerp 2019 - Day 3


Desertfest Antwerp 2019 - Day 3
[Sleep + Eyehategod + Monkey3 + Crypt Trip + Wolvennest + Sâver]


Uno degli aspetti più interessanti dei festival come il Desertfest è la possibilità di scoprire nuove band, magari non ancora uscite dall’ambito underground. Eppure per questo ultimo giorno la mia scelta ricade quasi sempre su band conosciute, e già viste dal vivo. L’effetto sorpresa me lo serbo solo per la band di apertura. Ma che sorpresa!

La musica dei norvegesi Sâver si abbatte come un’esplosione sul Canyon Stage. Una profondità di suono spaventosa trasforma la sala dal soffitto basso un vero e proprio tunnel verso un’altra dimensione, e ben presto mi ritrovo risucchiato dalla forza centripeta delle distorsioni. Le atmosfere evocate dal trio sono quelle post apocalittiche care agli Amenra, in cui urla strazianti e dissonanze acide assumono un potere catartico e liberatorio, anziché opprimente o disturbante. Sicuramente la scoperta più interessante di questa edizione!

Entro poi nel Desert Stage dove i Wolvennest hanno appena iniziato il loro rituale. Ma prima ancora di trovarmi dentro la grande sala, l’odore dell’incenso mi fa capire che la cerimonia officiata dalla band belga sarà in grande stile. Candelabri, teschi, e abiti di scena fanno da contorno alla loro musica cosmica, che pare una vera e propria messa funebre di un altro universo. La voce di Shazzula è eterea e ondeggia in mezzo alla tempesta generata dalle tre chitarre, sorta di post black metal psichedelico dall’incedere rallentato. Una cattedrale grandiosa come il palco principale amplifica la profondità della loro musica, anche se l’atmosfera criptica del loro concerto del 2016 nel Canyon Stage rimane imbattuta.

Per la prima volta in questa edizione, entro nel Vulture Stage per il concerto dei Crypt Trip. E ammetto che, in quattro edizioni, mai avevo visto la saletta piccola stracolma come stavolta. Come dimostra la band americana con il suo strepitoso concerto, l’hype è ampiamente giustificato. Senza l’apporto del chitarrista aggiuntivo alla slide guitar - che aveva reso il concerto di Cascina Bellaria più morbido, evocando atmosfere degne dei grandi spazi americani - stasera la band (in trio) suona essenziale e diretta. Al galoppo lungo le praterie, senza troppe riflessioni romantiche di fronte ai tramonti che illuminano i canyon, e senza pause nei saloon che si incontrano lungo la strada. Con un’energia incontenibile che straborda da ogni fraseggio di chitarra e da ogni fill carambolesco di batteria, i Crypt Trip superano se stessi e regalano uno dei migliori concerti del festival! Anche la voce di Ryan Lee è caldissima e decisamente più robusta della volta precedente. Ma ciò che rende i Crypt Trip una perfetta band dal vivo è la batteria di Cameron Martin: un’intera mandria di cavalli allo stato brado che travolge qualsiasi cosa incontri, cambiando continuamente direzione senza mai perdere groove! Ginger Baker sarebbe stato fiero di lui, e della sua incredibile band, in grado di risollevare l’hard rock di fine anni '60 anche a mezzo secolo di distanza! Straordinari!

Dopo l’intimità del concerto acustico di ieri, oggi i Monkey3 ci regalano uno spettacolo completamente diverso. Ciò che ieri era raccolto e gelosamente custodito, oggi esplode all’esterno. I colori caldi del giorno precedente diventano gelidi, come se in una familiare stanza con camino avessimo aperto la finestra per uscire fuori a guardare le stelle. Ci si sente più soli di fronte alla grandiosità elettrica di stasera che nella confidenziale versione acustica di ieri. E’ splendido perdersi in questa vastità strumentale, che genera arcobaleni sonori resi ancora più luminosi dalle proiezioni spaziali e dagli effetti di luce e fumo che avvolgono il palco più grande del Trix. I brani di Sphere (ultimo disco della band) acquistano una grandiosità ancora più marcata di quanto avvenga nella versione in studio. Una fantascienza epica e maestosa che non disdegna enormi esplosioni di volume, tra i tanti passaggi melodici ed atmosferici. I Monkey 3 al massimo del loro splendore.

Se i Monkey 3 ci hanno offerto caramelle colorate per approdare su un qualche universo parallelo senza eccedere neanche troppo con la quantità di allucinogeni, gli Eyehategod ci offrono eroina ed eccedono eccome, catapultandoci nei più lerci e malati bassifondi di New Orleans. In mezzo alla sporcizia delle distorsioni, e agli aghi infetti di feedback, manca però qualcosa. Jimmy Bower non è sul palco. Si dice che un’operazione al braccio lo abbia costretto ad abbandonare il tour, ma al suo posto c’è un gradito ritorno: Brian Patton. Il chitarrista, che aveva abbandonato la band l’anno scorso, torna per infliggerci una serie di riff deviati e acidi, che perdono parte del grasso e dell’alcol sudato dalla chitarra di Bower, ma acquistano quella spiacevole sensazione di ferro che si sente in bocca dopo essersi spaccati un labbro. Più rugginosi e stridenti che mai, gli Eyehategod ci regalano un concerto di depravazione e sgradevolezza, grazie anche alla tossica ma, come sempre, impeccabile prestazione vocale di Mike Williams. Resta l’amarezza di non riuscire più a vederli in formazione completa con due chitarre (nel 2018 li vidi con Bower ma senza Patton). Del resto non si può pretendere che il caos e la malattia che regnano nella loro musica non si ripercuotano sulle loro vite. Incurabili!

Il gran finale del festival è nelle mani della band che, più di ogni altra, è in grado di rappresentare il passato e, al tempo stesso, il presente, della musica suonata in questi 3 giorni: gli Sleep. Per farci smaltire i postumi dell’overdose di feedback del concerto degli Eyehategod, la band di Matt Pike ci offre una nebbia di basse frequenze. Una nuvola di fumo estremamente densa, ma in grado di esprimere forza propulsiva, come dimostra l’iniziale Marijuanaut's Theme, il cui groove - inedito nello stagnante e sovraffollato ambiente sludge - è una sorta di vento caldo in grado di spostare anche le dune più gigantesche. In un Desert Stage stracolmo, gli Sleep riescono ad esprimere ciò che il concerto di Bologna di quattro giorni prima aveva appena fatto intuire. La loro musica è un elefante che si muove a passo lento e pesante, ma che possiede elasticità ed agilità. Anche quando i riff sono rallentati più di quanto avvenga nelle versioni in studio, e affoghiamo nelle sabbie mobili delle distorsioni, è impossibile non percepire il movimento che scorre sotto di noi, probabilmente generato dagli enormi vermi delle sabbie di Dune (anche se parte del merito credo debba essere riconosciuto alla batteria di Jason Roeder, in realtà!). Suoni molto più potenti e avvolgenti e una band più carica (Al Cisneros canta in modo molto più cattivo, meno narcotizzato) rendono finalmente giustizia alla loro musica. Non credo che esista modo migliore per chiudere un festival stoner del riff di Dragonaut. Indimenticabile!

Dopo un finale di questo livello, attendo con ansia l’inizio del mio quinto Desertfest Antwerp! Certo che anche la prossima volta saprà stupirmi, facendomi conoscere nuove band e valorizzando quelle già ascoltate, ma soprattutto facendomi vivere tre giorni al di fuori del tempo e dello spazio, in una sorta di paradiso per appassionati di heavy psych!
[R.T.]

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Desertfest Antwerp 2019 - Day 3 [Sleep + Eyehategod + Monkey3 + Crypt Trip + Wolvennest + Sâver]


One of the most interesting aspects of festivals such as Desertfest is the chance to discover new bands, perhaps not yet emerged from the underground. Yet for this last day my choice almost always falls on known bands, already seen live. Today the only surprise effect for me is with the opening band. But what a surprise!

The music of the Norwegians Sâver hits like an explosion on the Canyon Stage. A frightening depth of sound transforms the low-ceilinged room into a real tunnel to another dimension, and soon I find myself sucked in by the centripetal force of the distortions. The atmospheres evoked by the trio are the post apocalyptic ones dear to Amenra, in which excruciating screams and acid dissonances assume a cathartic and liberating power, rather than an oppressive or disturbing one. Certainly the most interesting discovery of this edition!

Then I entered the Desert Stage where Wolvennest have just started their ritual. But even before being inside the great hall, the smell of incense makes me understand that the ceremony officiated by the Belgian band will be magnificent. Candelabras, skulls, and stage clothes surround their cosmic music, which looks like a real funeral mass from another universe. Shazzula's voice is ethereal and sways in the middle of the storm generated by the three guitars, a sort of psychedelic post black metal with a slowed pace. A cathedral as grand as the main stage amplifies the depth of their music, although the cryptic atmosphere of their 2016 concert on the Canyon Stage remains undefeated.

For the first time in this edition, I enter the Vulture Stage for Crypt Trip concert. And I admit that, in four editions, I had never seen the small room full to the brim as this time. As the American band shows with its amazing concert, the hype is widely justified. Without the contribution of the additional guitarist with the slide guitar - which had made Cascina Bellaria concert softer, evoking atmospheres worthy of the great American spaces - tonight the band (as a trio) sounds essential and direct. Galloping along the prairies, without too many romantic reflections in front of the sunsets illuminating the canyons, and without pauses in the saloons they meet along the way. With an irrepressible energy overflowing from every phrasing of guitar and from every funambulistic drum fill, Crypt Trip overcome themselves and play one of the best concerts of the festival! Ryan Lee's voice is also really warm and much more robust than the last time I saw them live. But what makes Crypt Trip a perfect live band is Cameron Martin's drum: an entire herd of wild horses overwhelming anything it encounters on its way, constantly changing direction without ever losing groove! Ginger Baker would have been proud of him, and his incredible band, able to revive late 60s hard rock even half a century later! Extraordinary!

After the intimacy of yesterday's acoustic concert, today Monkey3 plays us a completely different show. What was collected and jealously guarded yesterday, today explodes outside. The warm colors of the previous day become now icy, as if in a familiar room with a fireplace we had opened the window to go outside to look at the stars. We feel more alone in front of tonight's electric grandeur than in yesterday's confidential acoustic version. It is amazing to get lost in this instrumental vastness, which generates sound rainbows made even brighter by the space video projections and the effects of light and smoke that envelop Trix largest stage. Songs from Sphere (the latest album of the band) acquire an even more marked grandeur than in the studio version. An epic and majestic science fiction that does not mind huge explosions of volume, among the many melodic and atmospheric passages. Monkey 3 at their peak.

If Monkey 3 offered us coloured candies to land on some parallel universe without exceeding too much with the amount of hallucinogens, Eyehategod offer us heroin and they go too far, catapulting us into the dirtiest and sickest slums of New Orleans. In the midst of the dirt of the distortions and the feedback needles, something is missing. Jimmy Bower is not on stage. An arm operation is said to have forced him to abandon the tour, but in his place there is a welcome return: Brian Patton. The guitarist, who had left the band last year, returns to inflict on us a series of deviant acid riffs, which lose some of the fat and alcohol sweated by Bower's guitar, but acquire that unpleasant feeling of iron in mouth you usually feel after splitting a lip. More strident and rusty than ever, Eyehategod play a concert of depravity and unpleasantness, thanks also to Mike Williams' toxic but, as always, impeccable vocal performance. The bitterness of not being able to see them with their full lineup with two guitars remains (in 2018 I saw them with Bower, but without Patton). After all, it cannot be expected that the chaos and disease reigning in their music do not affect their lives. Incurable!

The grand finale of the festival is entrusted to the band which, more than any other, is able to represent the past and, at the same time, the present, of the music played in these 3 days: Sleep. To get rid of the aftermath of the feedback overdose of Eyehategod concert, Matt Pike's band offers us a fog of low frequencies. An extremely dense cloud of smoke, yet capable of expressing propulsive force, as evidenced by the initial Marijuanaut's Theme, whose groove - unprecedented in the stagnant and overcrowded sludge environment - is a sort of warm wind capable of moving even the most gigantic dunes. In a jam-packed Desert Stage, Sleep managed to express what their concert in Bologna four days before had just hinted at. Their music is an elephant that moves slowly and heavily, but which has elasticity and agility. Even when riffs have slowed down more than their studio versions, and we drown in the shifting sands of the distortions, it is impossible not to perceive the movement that flows below us, probably generated by the huge worms of Dune sands (although part of the merit I think it must be recognized on Jason Roeder's drums, actually!). Much more powerful and enveloping sounds and a more motivated band (Al Cisneros sings much more evil and less narcotized) finally do justice to their music. I don't think there is a better way to close a stoner festival than Dragonaut riff. Unforgettable!

After a finale of such a high level, I look forward to the start of my fifth Desertfest Antwerp! Sure that also next time it will amaze me, introducing me to new bands and enhancing those ones I already listened to, but above all making me live three days out of time and space, in a sort of paradise for heavy psych fans!
[R.T.]


venerdì 13 marzo 2020

Desertfest Antwerp 2019 – Day 2


Desertfest Antwerp 2019 – Day 2
[Inter Arma + Ty Segall & Freedom Band + Monkey3 (special acoustic show) + Bongripper + Church of Misery + Fireball Ministry + Admiral Sir Cloudesley Shovell]

Secondo giorno di festival. Inizio dei concerti: ore 15:00. Si preannuncia una lunga maratona ai limiti della resistenza fisica.

Per rompere il fiato inizio subito a mille con gli Admiral Sir Cloudesley Shovell, che incendiano il Canyon Stage con il loro hard rock che puzza di alcol, tabacco, benzina, canottiera dei Motorhead sudata e pantaloni a zampa che toccano terra e si inzuppano di birra. Grezzi e rozzi come sempre, stasera perdono parte dell’adrenalina per la quale sono un loro fan, a causa della defezione della batterista Serra Petale, sostituita all’ultimo minuto, per alcune date del tour, da Sammy Forway. Sammy si inserisce bene nella musica zozza e distorta dell’ammiraglio, ma inevitabilmente mancano la frenesia e la fantasia di Serra. Impossibile comunque non divertirsi ad un loro show: 40 minuti di proto metal che, grazie ad un brano nuovo, promette benissimo anche per il futuro.

Ancora sudato per il concerto dell’ammiraglio, entro nel Desert Stage come semplice turista per osservare un’attrazione del pianeta stoner: Scott Reeder. I Fireball Ministry - ovvero la sua band - suonano un hard rock piuttosto leggero con qualche melodia anni '90, ottimamente suonato ma non particolarmente coinvolgente. Ma la mia è pressoché una visita allo zoo per vedere con i miei occhi un animale esotico in via d’estinzione. Il bassista dei Kyuss (e, prima ancora, degli Obsessed) è uno spettacolo da osservare attentamente, per come suona il suo strumento in modo fisico e viscerale. Vederlo ondeggiare nascosto sotto i lunghi capelli biondi, a piedi scalzi, mentre colpisce con furia e amore il suo basso, riporta ad un’epoca che non c’è più, ma che questo festival mantiene ancora in vita, come in un'oasi naturale.

Selvatici, e senza alcuna nostalgia, suonano invece i Church of Misery. Ormai stabilizzatasi in formazione al 100% made in Japan, la band di Tatsu Mikami suona attualissima nonostante peschi a piene mani dai Black Sabbath e dalle progenie più fangose della band di Birmingham (Down in primis). Nessuna bestia in cattività potrebbe possedere un groove così malvagio e straripante di energia. Imbracciato così basso che quasi tocca terra, il basso di Mikami è gommoso e appiccicoso fino al punto da tirarsi dietro i riffoni sporchi e bastardi della chitarra di Yasuto Muraki. Le soglie di selvaggia depravazione sono portate ai massimi livelli dalla voce di Hiroyuki Takano, perfettamente a suo agio nel raccontare raccapriccianti storie di serial killer. L’humour nero giapponese è imbattibile!

Sempre sul Desert Stage è poi il momento di immergersi nella nube di suono, fittissima, creata dai Bongripper. Come sempre mi avvicino con sospetto a tutte queste band sludge con suffisso/prefisso –bong, weed-, dope-. Ma poi - immancabilmente! - mi innamoro di loro, accorgendomi che non suonano tutte uguali come la scarsa fantasia del loro nome potrebbe far ipotizzare. La densissima nebbia tossica generata dai Bongripper, ad esempio, è fatta di lunghi brani strumentali più vicini al post metal apocalittico o al drone che allo stoner doom orgogliosamente strafatto. La loro musica non è una droga leggera per rendere assurda e surrealmente divertente una serata: è roba pesante, fatta di riff mastodontici e ipnotici che fanno perdere l’orientamento, mentre schegge rumorose si fanno breccia nel muro di suono. Ormai completamente rapito, mi allontano a malincuore dal loro concerto ad una quindicina di minuti dalla fine, con la promessa di rivederli presto. Ma quello che sta per accadere nel sotterraneo del Trix è un evento speciale al quale non posso mancare.

Sono infatti riuscito ad ottenere il braccialetto per il concerto speciale dei Monkey3, che si esibiscono per pochi intimi (40-50 persone al massimo) in versione acustica. Illuminata da luci soffuse e ricoperta da pannelli in legno, la saletta sotterranea ha la calda atmosfera della sala prove, o del salotto di casa di un amico. La band svizzera scherza con i presenti, e la sintonia che si crea nella sala, prima ancora che venga suonata la prima nota, è perfetta. Per circa 45 minuti la band ci offre una versione inedita della sua musica, per l’occasione arrangiata con chitarre acustiche suonate con lo slide, senza tastiera, e con una batteria che mostra il suo lato morbido e avvolgente. Un progressive rock sofisticato, ma mai lezioso, che trasforma la sua componente psichedelica, spaziale ed epica in un rock intimo, caldo, a tratti perfino introverso. Parte del pubblico seduta a terra, ad occhi chiusi, per assaporare una musica che è un vero e proprio regalo nei confronti di una manciata di amici, isolati dal resto dal mondo mentre fuori infuriano battaglie di chitarre distorte. Con il passare dei minuti la stanza da calda si fa rovente, e l’ossigeno inizia a scarseggiare. Durante il brano di chiusura (una rilettura di Riders on the Storm dei Doors) l’ambiente anaerobico inizia ad avere, su di me, effetti ai limiti dello psicoattivo, ed appena finito il concerto esco a prendere una boccata d’aria, augurandomi che l’anno prossimo questi concerti sotterranei siano resi maggiormente vivibili da un adeguato impianto di aerazione. Riprendo ossigeno, acqua e forze, con la consapevolezza di aver assistito ad un concerto splendido e assolutamente unico, per poterne affrontare un altro per il quale nutro aspettative molto alte.

Dopo una lunga pausa al fresco del giardino (quest’anno più fresco del solito, visto il clima decisamente autunnale di quest’edizione), sono pronto per Ty Segall. Ma per quanto potessi essere pronto, non avrei mai potuto immaginare un concerto esplosivo come questo! Il garage rock venato di psichedelia suonato dal californiano è infatti arrangiato con una potenza di suono che nessuno, nel corso dei tre giorni, riuscirà ad eguagliare. Un muro di fuzz nel quale le melodie agrodolci galleggiano come bolle, prima di scoppiare in arcobaleni di feedback e dissonanze, sotto una cascata di energia elettrica. Sono senza parole. Innamorato del recente disco dal vivo Deforming Lobes (in cui, come stasera, Ty è accompagnato dalla Freedom Band) ero preparato ad uno show elettrico ad alto voltaggio. Ma mai avrei immaginato che il rumore selvaggio e infuocato potesse valorizzare così a fondo le melodie sessantiane delle sue canzoni. I brani tratti da Manipulator (che occupano la seconda parte del concerto, quella più trascinante) sono manipolati e deformati come in preda ad un delirio, nel quale è difficile rimanere lucidi. Mentre infuria il pogo, e la gente vola al di là delle transenne, mi rendo conto di essere, anche io, completamente succube dell’energia travolgente liberata dalla band. Personalmente il concerto più esaltante del festival. Memorabile.

Dopo un concerto intenso come quello di Ty Segall, può esserci solo l’apocalisse. E quella ce la offrono gli Inter Arma, con il loro scontro titanico tra il fango spirituale dei Neurosis e quello materiale dei Morbid Angel, tra la polvere di stelle del rock progressivo e lo zolfo infernale del black metal più efferato. Giganteschi e inclassificabili, sono un buco nero nel quale le mie energie residue vengono risucchiate. Ma è bellissimo sentirsi svuotato da una violenza così catartica, che ti scaraventa nello spazio profondo alla velocità della luce, per poi farti scontrare con asteroidi pesanti come macigni, provenienti da tutte le direzioni. Attimi di pace melodica offrono respiro e ampliano il panorama verso galassie lontane, prima che tutto imploda sotto la furia cieca della band. Un bassista che sbava come un cane rabbioso e un cantante che ringhia, grugnisce, strepita e, perfino, si veste da crooner darkwave, mentre un batterista piovra si inerpica e arrovella nell’impossibile. Meravigliosi e devastanti, mi lasciano spossato, ma felice. Proprio come questa lunga giornata di concerti. 
[R.T.]


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Desertfest Antwerp 2019 – Day 2
[Inter Arma + Ty Segall & Freedom Band + Monkey3 (special acoustic show) + Bongripper + Church of Misery + Fireball Ministry + Admiral Sir Cloudesley Shovell]

Second day of festival. Concerts start at 3:00 pm. A long marathon on the edge of physical endurance is waiting for me.

To break my breath, I start right away with the Admiral Sir Cloudesley Shovell, who set the Canyon Stage on fire with their hard rock smelling like alcohol, tobacco, gasoline, sweaty Motorhead tank top  and bell-bottoms touching the ground and getting drenched in beer. Raw and rough as always, tonight they are losing some of the adrenaline I love, due to the defection of drummer Serra Petale, replaced at the last minute, for some tour dates, by Sammy Forway. Sammy fits well into the admiral's dirty and distorted music, but inevitably Serra's frenzy and creativity are lacking. Impossible, however, not to have fun at their show: 40 minutes of proto metal which, thanks to a new song, also promises very well for the future.

Still sweaty for the admiral's concert, I enter the Desert Stage as a simple tourist to observe an attraction of the stoner planet: Scott Reeder. Fireball Ministry - his band - play a fairly light hard rock with some 90s melody, well played but not particularly engaging. But mine is almost a visit to the zoo to see an endangered exotic animal with my own eyes. Kyuss (and, before, Obsessed) bassist is a show to be observed carefully, for how he plays his instrument in a physical and visceral way. Seeing him sway hidden under long blond hair, barefoot, while striking his bass with fury and love, takes us back to an era that no longer exists, but that this festival still keeps alive, as in a natural oasis.

Wild, and without any nostalgia, are Church of Misery instead. By now stabilized in a 100% made in Japan line-up, Tatsu Mikami band plays extremely modern despite fishing with full hands from Black Sabbath and the muddiest offspring of the band from Birmingham (Down above all). No captive beast could have such an evil and overflowing energy groove. Embraced so low that it almost touches the ground, Mikami's bass is gummy and sticky to the point of dragging with itself the dirty bastard riffs of Yasuto Muraki's guitar. The thresholds of wild depravity are brought to the highest levels by the voice of Hiroyuki Takano, perfectly at ease in telling gruesome serial killer stories. Japanese black humor is unbeatable!

Still on Desert Stage it is then time to immerse ourselves in the dense cloud of sound created by Bongrippers. As always I suspiciously approach all these bands with the suffix/prefix –bong, weed-, dope-. But then - invariably! - I fall in love with them, realizing that they do not sound all the same as the lack of imagination of their name could suggest. The dense toxic fog generated by Bongrippers, for example, is made up of long instrumental songs much closer to apocalyptic post metal or drone than to the proudly doped up stoner doom. Their music is not a light drug to make an evening absurd and surreally fun: it is heavy stuff, made of huge and hypnotic riffs that make you lose your orientation, while noisy splinters break through the wall of sound. Completely in ecstasy, I walk away reluctantly from their concert about fifteen minutes before its end, with the promise to see them again soon. But what is going to happen in the basement of the Trix is ​​a special event that I cannot miss.

Indeed, I managed to get the wristband for the special Monkey3 concert, which perform an acoustic set for a few close friends (40-50 people maximum). Illuminated by soft lights and covered with wooden panels, the underground room has the warm atmosphere of the rehearsal room, or the living room of a friend's house. The Swiss band jokes around with those present, and the harmony in the hall is perfect even before the first note is played. For about 45 minutes the band offers us an unedited version of its music, especially arranged with acoustic guitars played with the slide, and with a drum that shows its soft and enveloping side. A sophisticated, yet never affected, progressive rock that transforms its psychedelic, spatial and epic component into an intimate, warm, sometimes even introverted, rock. Part of the audience sitting on the ground, with their eyes closed, to savour music that is a real gift to a handful of friends, isolated from the rest of the world while outside battles of distorted guitars rage. As the minutes pass, the hot room becomes scorching, and oxygen begins to run low. During the closing song (a reinterpretation of Doors' Riders on the Storm) the anaerobic environment starts to have almost psychoactive effects, and as soon as the concert is over I go out to get some fresh air, wishing that next year these underground concerts are made more livable thanks to an adequate ventilation system. I take back oxygen, water and strength, with the awareness of having attended an amazing and absolutely unique concert, to be able to face another one for which I have very high expectations.

After a long break in the cool of the garden (this year cooler than usual, given the decidedly autumnal weather of this edition), I'm ready for Ty Segall. But no matter how ready I was, I could never have imagined an explosive concert like this! The garage rock tinged with psychedelia played by the Californian is in fact arranged with a sonic power that no one will be able to match in the course of the three days. A wall of fuzz in which bittersweet melodies float like bubbles, before bursting into rainbows of feedbacks and dissonances, under a cascade of electricity. I'm speechless. In love with the recent live album Deforming Lobes (with the Freedom Band, as tonight) I was prepared for a high voltage electric show. But never would I have imagined that the wild and fiery noise could enhance the 60s melodies of his songs so thoroughly. Manipulator's songs (which occupy the second part of the concert, the most enthralling one) are worked and deformed as in a delusion, in which it is difficult to remain lucid. While mosh is raging, and people is flying beyond the barriers, I realize that I am completely dominated by the overwhelming energy released by the band. Personally the most exciting concert of the festival. Unforgettable.

After an intense concert like Ty Segall one, there can only be an apocalypse. And that is offered by Inter Arma, with their titanic clash between Neurosis spiritual mud and Morbid Angel material mud, between the stardust of progressive rock and the infernal sulfur of the most heinous black metal. Gigantic and unclassifiable, they are a black hole in which my residual energies are sucked. But it's wonderful to feel emptied by such cathartic violence, which throws you into deep space at the speed of light, and then makes you collide with asteroids heavy like boulders, coming from all directions. Moments of melodic peace offer breath and widen the landscape towards distant galaxies, before everything implodes under the blind fury of the band. A bassist who drools like an angry dog ​​and a singer who growls, grunts, screams and even dresses up as a darkwave crooner, while an octopus drummer climbs and struggles in the impossible. Wonderful and devastating, they leave me exhausted, but happy. Just like this long day of concerts.
[R.T.]


mercoledì 11 marzo 2020

Desertfest Antwerp 2019 - Day 1


Desertfest Antwerp 2019 – Day 1
[Sunnata + Zeal & Ardor + Truckfighters + Nebula + Monomyth]

Il Desertfest non è un semplice fine settimana di concerti: è un’esperienza. E ogni anno è un’esperienza diversa. L’atmosfera è però sempre la stessa: piacevole e rilassata. Una comunità di amici che si riconosce in questa musica e in questo modo loose di viversela. Nuovi compagni di viaggio si aggiungono ai vecchi affezionati, e il mio quarto Desertfest Antwerp suona diverso anche per questo, oltre che per le scelte musicali degli organizzatori. Quest’anno il festival mostra infatti una forte componente sludge, e propone due headliner sorprendenti: Zeal & Ardor e Ty Segall, aprendo la sua proposta a musica spiccatamente sperimentale e alternativa, ancor più che in passato.

Il battesimo di quest’edizione è affidato ai Monomyth, sul Canyon Stage. Non poteva esserci inizio migliore. Il loro space rock progressivo è ipnotico e subito mi perdo nel labirinto costruito dai cinque olandesi. Il groove ossessivo, circolare e precisissimo di Sander Evers (già batterista degli storici 35007) è il battito cardiaco che dona vita ad una psichedelia strumentale dominata da echi profondi e arpeggi liquidi ma anche da riff robusti e rocciosi. Quattro lunghi pezzi (di cui due dal nuovo album Orbis Quadrantis) per 40 minuti di musica che, personalmente, si sarebbero potuti dilatare fino ad occupare l’intera giornata. Aspettavo il loro ritorno da quando li vidi al mio primo Desertfest (Londra 2016) e - grazie anche alla loro componente krautrock - si confermano uno dei nomi più interessanti del genere, tra quelli attualmente in circolazione! Quest’anno il festival ha segnato un goal al primo minuto di gioco: band del giorno, istantaneamente!

Entro nella sala principale (Desert Stage) a concerto dei Nebula appena iniziato. Ciò di cui mi accorgo immediatamente è che il gruppo di Eddie Glass sembra un altro rispetto al concerto di Livorno di pochi giorni prima. Carico a mille, esuberante, incontenibile, ma in grado di incanalare l’energia in canzoni dirette, compattando la sabbia del deserto in riffoni stoner, anziché soffiandola via in divagazioni soliste. Anche Glass appare più lucido, divertito e determinato, e finalmente riconosco la musica dei Nebula per quello che è: stoner rock trascinante con un retrogusto sporco e acido che sa tanto di anni '90. Un pezzo di storia, finalmente assaporato nel modo giusto.

Sullo stesso palco salgono poi i Truckfighters, per mostrarci un’interpretazione dello stoner rock completamente diversa. Privi di qualsivoglia componente aspra o polverosa, gli svedesi suonano una musica festaiola dominata da una chitarra carica di fuzz. Se musicalmente hanno un ottimo impatto (grazie ad un grande batterista), dal punto di vista vocale sono davvero fiacchi! Se nelle parti più dirette, cariche di groove e melodia (alla Queens of the Stone Age) sono molto divertenti, in quelle più cerebrali e progressive non sembrano troppo a fuoco. Impossibile comunque non divertirsi ad un loro concerto, grazie alla loro abilità come intrattenitori: il chitarrista salta e corre per tutto il concerto e scende a suonare in mezzo al pubblico, mentre il bassista chiude lo show facendo stage diving. Ma se nel complesso divertono moderatamente, come una festa a base di birra analcolica, è il pezzo di chiusura, Desert Cruiser, che fa impennare l’eccitazione. Anche perché non cantato da loro ma da tutto il pubblico, questo pezzo esalta come una cassa di birra trovata in cantina quando ormai tutto era dato per perduto! Desert Cruiser da sola vale tutto il concerto, dimostrando quanto i Truckfighters siano una band che con un singolo ha costruito la sua fama. Ma che singolo! Da bere tutto d’un fiato!

Immagino la sorpresa, per il tradizionale pubblico del Desertfest, quando sono stati annunciati gli Zeal & Ardor come headliner. Il loro metal moderno e ipercompresso, con qualche occhiata nelle profondità infernali della fiamma nera nordeuropea, mischiato a cori e melodie gospel afroamericane, è una miscela buona per infiammare il pubblico del Roadburn, più che quello di questo festival più classicamente heavy psych. Scommetto ceh in molti avranno pensato ad uno scherzo di cattivo gusto. Certamente non io! Mi avvicino al palco con grandi aspettative, ma anche con un po’ di preoccupazione, data la natura della musica e del progetto (nato come one man band, e solo in seguito sviluppatosi in un gruppo vero e proprio). Quel che mi trovo di fronte è sorprendente! Sono proiettato a velocità stratosferica in una chiesa del profondo sud degli Stati Uniti nella quale i canti religiosi si trasformano in invocazioni demoniache. E’ tutto talmente assurdo che pare di essere ad un ritrovo di una setta di fondamentalisti sotto LSD. Il Tempio del Popolo di Jim Jones non avrebbe potuto avere colonna sonora migliore, soprattutto durante il massacro di Jonestown. Spaventoso e meraviglioso al tempo stesso, il concerto degli Z&A è un bad trip suonato perfettamente. Eh sì! Perché questo delirio schizofrenico stupisce per quanto suoni compatto e fluido. Potenza e tiro devastanti, ma anche capacità di costruire atmosfere affascinanti. La band suona chirurgica, intrecciando con nonchalance cori a tre voci, riuscendo perfino a valorizzare gli splendidi brani del primo disco, parzialmente penalizzati dalla loro produzione estremamente lo-fi (eccezion fatta per Come On Down, il cui nuovo arrangiamento non mi convince al 100%). Manuel Gagneux in particolare è un cantante versatile e molto dotato, con una sensibilità unica, perfettamente a suo agio nelle trasformazioni alle quali lo costringe la sua musica. Una musica con una forte personalità, estremamente originale, che dal vivo si dimostra (e non era per niente scontato!) esaltante. Alla fine cosa c’è di più psichedelico di esser riusciti a portare i canti degli schiavi neri d’America nei freddi deserti di ghiaccio della Scandinavia? Concerto indimenticabile!

Concludo la mia serata al Canyon Stage, ma sono davvero troppo stanco per riuscire ad apprezzare la musica dei polacchi Sunnata. Le loro litanie ipnotiche, guidate da spirali di basso ossessive, e alternate a muri di suono a metà tra lo sludge più atmosferico e le melodie oblique degli Alice in Chains, mostra grandi potenzialità che il mio fisico spossato non è però in grado di godersi. Per questo abbandono il palco prima di aver ascoltato metà concerto. Spero di avere l’occasione per ascoltarli come meritano, in futuro. Ora è il momento di recuperare le forze per la giornata di domani.
[R.T.]
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Desertfest Antwerp 2019 – Day 1
[Sunnata + Zeal & Ardor + Truckfighters + Nebula + Monomyth]

Desertfest is not simply a weekend of concerts: it is an experience. And every year is a different one. However, the atmosphere is always the same: pleasant and relaxed. A community of friends who recognize themselves in this music and in this loose way of living it. New travel companions add to the old ones, and my fourth Desertfest Antwerp sounds different also for this reason, and not only for the musical choices of the organizers. Indeed, this year the festival shows a strong sludge element, and offers two surprising headliners: Zeal & Ardor and Ty Segall, opening its proposal to distinctly experimental and alternative music, even more than in the past.

The baptism of this edition is entrusted to Monomyth, on Canyon Stage. There could be no better start. Their progressive space rock is hypnotic and I immediately get lost in the labyrinth built by the five Dutchmen. Sander Evers (former drummer of the historians 35007) obsessive, circular and extremely precise groove is the heartbeat that gives life to an instrumental psychedelia dominated by deep echoes and liquid arpeggios, but also by robust rocky riffs. Four long tracks (including two from the latest Orbis Quadrantis) for 40 minutes of music that, personally, could have last the whole day. I had been waiting for their return since I saw them at my first Desertfest (London 2016) and - thanks also to their krautrock component - they confirmed to be one of the most interesting current names of the genre! This year the festival scored a goal in the first minute: instantly band of the day!

I enter the main hall (Desert Stage) while Nebula's concert has just begun. What I immediately notice is that Eddie Glass' band seems another compared to the one I listened to in Livorno just a few days before. Groovy, exuberant, irrepressible, but at the same time able to channel energy into direct songs, compacting the desert sand in stoner riffs, rather than blowing it away in solo digressions. Also Glass appears more focused, amused and determined, and I finally recognize Nebula's music for what it is: enthralling stoner rock with a dirty acid aftertaste so much reminiscent of the 90s. A piece of history, finally savoured in the right way.

Truckfighters then get on the same stage to show us a completely different interpretation of stoner rock. Without any harsh or dusty element, the Swedes play party music dominated by a fuzzy guitar. If musically they have got an excellent impact (thanks to a great drummer), from a vocal point of view they are really weak! If in the most direct parts, full of groove and melody (in Queens of the Stone Age style) they are really funny, in the more cerebral and progressive ones they don't seem too focused. However, it is impossible not to have fun during their gig, because they are great entertainers: the guitarist jumps and runs during the whole concert and gets off the stage to play among the audience, while the bassist closes the show stage diving. But if overall they entertain moderately, like a non-alcoholic beer party, it is the closing song, Desert Cruiser, that makes the excitement soar. Also because not sung by them but by the whole audience, this track exalts like a crate of beer found in the cellar when everything was now lost! Desert Cruiser alone is worth the whole concert, demonstrating how Truckfighters are a band that has built its fame with a single. But what a single! To be drunk in one breath!

I imagine the surprise, for the traditional Desertfest audience, when Zeal & Ardor were announced as headliners. Their modern, hypercompressed metal, with a few glances into the infernal depths of the North European black flame, mixed with African American gospel choirs and melodies, is a good mixture to inflame the audience of Roadburn, more than that of this more classically heavy psych festival. I bet that many have thought of a bad taste joke. Certainly not me. I approach the stage with great expectations, but also with a little concern, given the nature of the music and of the project (born as a one man band, and only later developed into a real combo). What I face is surprising! I am projected at stratospheric speed into a church in the deep south of the United States where religious songs are transformed into demonic invocations. It is all so absurd that it seems to be a meeting place for a sect of fundamentalists under the effect of LSD. The Jim Jones People's Temple couldn't have had a better soundtrack, especially during the Jonestown massacre. Frightening and wonderful at the same time, the Z&A concert is a perfectly played bad trip. Oh yes! Because this schizophrenic frenzy amazes for how compact and fluid it sounds. Devastating power and groove, but also ability to build fascinating atmospheres. The band plays surgically, nonchalantly interweaving three-part choruses, even managing to enhance the splendid tracks of the first album, partially penalized by their extremely lo-fi production (except for Come On Down, whose new arrangement does not convince me 100%). Manuel Gagneux in particular is a versatile and really talented singer, with a unique sensitivity, perfectly at ease in the transformations to which his music compels him. A music with a strong personality, extremely original, that proves to be exciting also as a live act (and it was not at all obvious!). In the end, what could be more psychedelic than having managed to bring the songs of the United States black slaves into the cold ice deserts of Scandinavia? Unforgettable concert!

I end my evening at Canyon Stage, but I'm really too tired to be able to appreciate the music of Polish Sunnata. Their hypnotic litanies, guided by obsessive bass spirals, and alternated with walls of sound halfway between atmospheric sludge and Alice In Chains oblique melodies, shows a great potential that my exhausted body is not able to enjoy. For this reason I leave the stage before I listened to half their concert. I hope to have the chance to listen to them as they deserve in the future. Now it is time to recover my energies for tomorrow.
[R.T.]