sabato 28 maggio 2016

Storm{O} + Sex Pizzul + Collettivo Nimel – 20.05.2016 – No Cage (Prato)


Storm{O} + Sex Pizzul + Collettivo Nimel – 20.05.2016 – No Cage (Prato)

Stasera il No Cage ci propone tre portate molto diverse tra loro ma indubbiamente tutte molto gustose per i palati in cerca di piatti inusuali. Il dissonante e frenetico dolcetto di fine cena, confezionato dagli Storm{O}, è quello che mi attira più di ogni altra cosa.

La prima portata è preparata dal collettivo Nimel che ospita anche parte del collettivo Ned da Roma per un esperimento di “psichedelia diffusa” in cui i vari membri si scambiano in continuazione ruoli e strumenti, lasciandosi andare a deliranti improvvisazioni dal sapore kraut rock. Oltre agli strumenti rock tradizionali c’è spazio per svariate percussioni, attrezzi assurdi di ogni tipo, maialini di gomma, vuvuzele, sitar… Free form puro in cui bisogna lasciarsi trasportare dal momento e goderselo. Da leccarsi i baffi!

Il secondo piatto lo offrono i fiorentini Sex Pizzul, con il loro math rock dinamico trascinato dal motore basso/batteria, sempre all’opera per agitare i brani spigolosi verso cambi di direzione apparentemente naturali (grazie ad un’evidente sensibilità indie-pop). Un gustoso abbinamento tra la tastiera melodica e il basso distorto genera un intreccio tra synth pop ballabile e post rock rumoroso. Divertenti e danzerecci.

Trenta minuti di hardcore furioso per…concludere “la cena”. Gli Storm{O} mi riportano ai tempi dei concerti al Matilda di Viareggio, più di una decina di anni fa (quando questa musica si chiamava “screamo”). Ma qui la bruciante passione delle melodie, oltre a nascondersi in una selva di caos, è oppressa dalla pesantezza delle distorsioni massicce (e per chi come me adora il potere catartico degli assalti dei Converge e dei Botch è pura goduria). Post hardcore carico di dissonanze, con continui cambi di tempo (sempre a velocità sovrumana) che non fanno che accentuare la tensione. Dopo i primi pezzi lievemente ingolfati dai bassi, la musica della band di Feltre si apre e rilascia una raffica di sfuriate taglienti dall’intensità spaventosa. A volte è necessario bruciare in un attimo per chiudere un cerchio aperto più di dieci anni prima.
[R.T.]
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Storm{O} + Sex Pizzul + Collettivo Nimel – 05.20.2016 – No Cage (Prato)

Tonight No Cage offers us three really inviting and delicious dishes for those one looking for unusual tastes, yet very different from each other. The dissonant frantic after-dinner treat prepared by Storm{O} is what attracts me more than anything else.

The first course is cooked by the collective Nimel with special guests from the collective Ned (from Roma). It is an experiment of “diffused psychedelia” in which musicians constantly exchange their roles and instruments in delusional improvisations with kraut rock taste. Not only traditional rock instruments: several percussions, absurd tools of any kind, plastic pig-shaped toys, vuvuzele, sitar… Pure free form to be fully relished and to which abandon themselves. Yummy!

The second course is offered by Sex Pizzul, from Florence. A dynamic math rock with the leading engine of bass/drums, always at work arousing sharp-cornered songs towards apparently natural changes of direction (thanks to an evident indie-pop sensitivity). A tasty match of melodic keyboards and distorted bass results in a mix of dance synth pop and noisy post rock. Funny and shaking.

Thirty minutes of furious hardcore to…end “this dinner”. Storm{O} bring me back to the times of concerts at Matilda (in Viareggio) more than ten years ago (when we talk about this music as “screamo”). The burning passion of melodies not only hides into a forest of chaos: it is also oppressed by the heaviness of massive distortions (sheer pleasure for those - like me! – in love with the cathartic power of Converge and Botch assaults).  Post hardcore filled with dissonances, with continuous rhythmic changes (always at superhuman speed) constantly emphasizing the tension. After a few songs slightly engulfed by low sounds, the music of the band from Feltre opens itself up and releases sharp outbursts of frightening intensity. Sometimes you need to burn in an instant to close a circle opened more than ten years ago.
[R.T.]





mercoledì 25 maggio 2016

Bologna Violenta - Discordia


Bologna Violenta – Discordia
(Overdrive Records, Dischi Bervisti, 2016)

Discordia - nuovo assalto frontale di Bologna Violenta - è una raffica di mitra a bruciapelo. L'apertura pianistica di Sigle di telefilm lascia subito intuire che si finirà travolti da una scarica di pugni in faccia, ma senza sapere da quale direzione arriveranno. Un senso di dramma imminente anticipa l’esplosione di ultraviolenza: la tensione e l’inquietudine serpeggianti tra le note di piano dimostrano quanto “il lato umano” sia presente in questo nuovo disco, per quanto esso non sia ispirato a fatti di cronaca come il precedente Uno Bianca. Le sfuriate grindcore che seguono a ripetizione hanno la loro spina dorsale in melodie sinfoniche che sembrano provenire da una deragliata colonna sonora degli anni di piombo. La furia cieca si abbatte e si frammenta nell’arco di pochi secondi, come schegge di una bomba innescata dai Fantômas o dai Naked City, sempre mantenendo la tensione cinematografica distintiva della musica di Bologna Violenta. Con lo straordinario apporto di Alessandro Vagnoni alla batteria, il progetto di Nicola Manzan suona più umano (ancor più imprevedibile, oltre che più potente) e abbandona parte di quella meccanicità industriale che rendeva completamente surreali i lavori precedenti. Per quanto sarcastiche e deviate da una dose massiccia di humour nero, le melodie orchestrali risultano perfino più maestose rispetto al passato. Folle, amfetaminico, cinico e violento, Discordia è perfetta sintesi delle diverse anime che animano questo progetto, tra razionalità delirante e lucida follia, tra macabra ironia e ricerca artistica. 
[R.T.]
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Bologna Violenta – Discordia
(Overdrive Records, Dischi Bervisti, 2016)

Discordia - new frontal assault by Bologna Violenta - is a point-blank barrage of gunfire. After the touching piano opening of Sigle di telefilm you immediately know that you will be swept away by a blast of fists in the face but without knowing the direction they gonna hit you. A sense of imminent drama anticipates the explosion of ultraviolence: creeping among the piano notes, tension and anxiety demonstrate how much the “human side” is prominent in this new album, though not inspired by a real crime story as the previous one (Uno Bianca). Repeatedly deflagrating grindcore fits of anger have got their backbone in symphonic melodies that seem to originate from a derailed soundtrack of the era of terrorist outrages (the Seventies in Italy, the so called "anni di piombo"). The blind fury explodes and fragments itself in few seconds as splinters of a bomb triggered by Fantômas or Naked City, always maintaining the cinematographic tension typical of Bologna Violenta music. With the extraordinary contribution of Alessandro Vagnoni at the drums, Nicola Manzan project sounds even more human (more unpredictable as well as more powerful) and loses a bit of the industrial mechanical sound making his previous albums completely surreal. Though sarcastic and deviated by a massive dose of black humor, orchestral melodies sound even more majestic than ever before. Crazy, amphetaminic, cynic and violent, Discordia is the perfect synthesis of the different souls animating this project, halfway between delusional rationality and lucid madness, macabre irony and art research.
[R.T.]

domenica 22 maggio 2016

Megadeth - Rust in Peace


Megadeth - Rust in Peace
(Capitol Records, 1990)

Il quarto album dei Megadeth è l’ultimo, e definitivo, gradino nell’evoluzione del thrash metal degli anni 80. Prima che il fenomeno grunge spazzi via i suoni hard rock dell’epoca, e il Black Album dei Metallica riscriva le regole della musica mainstream, i Megadeth raggiungono il vertice con un ottovolante ipercinetico, completamente folle e cocainomane, in puro stile (di vita) ottantiano. Veloce e complessa, la musica di Rust in Peace è incontrollabile ma tecnicamente ineccepibile, grezza ma matura. I riff trascinanti di Dave Mustaine – insieme alle ritmiche ricche di groove di Dave Ellefson e Nick Menza – creano una combinazione al tempo stesso furiosa e fluida, arricchita dai meravigliosi assoli di Marty Friedman. La straripante creatività di Mustaine e la sensibilità melodica di Friedman sono i tratti distintivi di questo album: perfetto canto del cigno degli anni 80, precursore dell’heavy metal tecnico/progressivo dei 90.
[R.T.]
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Megadeth – Rust in Peace
(Capitol Records, 1990)

The fourth Megadeth album is the last, and definitive, step in thrash metal evolution. Before grunge phenomenon sweeps away hard rock sounds of that era, and Black Album rewrites mainstream music rules, Megadeth reach the top with an hyperkinetic roller coaster, completely crazy and cocaine addicted, in pure 80s life style. Fast and complex, Rust in Peace music is uncontrollable but technically flawless, raw but mature. Dave Mustaine enthralling riffs - together with Dave Ellefson and Nick Menza groovy rhythmic - create a furious and fluid combination, enriched by Marty Friedman wonderful solos. Mustaine overflowing creativity and Friedman melodic sensitivity are the main features of this album: perfect swansong of the 80s, forerunner of progressive/technical heavy metal of the 90s.
[R.T.]

giovedì 19 maggio 2016

Nero di Marte + Juggernaut – 14.05.2016 – Freakout Club (Bologna)


Nero di Marte + Juggernaut – 14.05.2016 – Freakout Club (Bologna)

Con la sua reinterpretazione in chiave post-apocalittica del death metal progressivo più ricercato, Derivae mi aveva da subito conquistata. E quindi non vedevo l’ora di sentire i Nero di Marte in concerto per poter cogliere la bellezza della loro musica anche dal vivo. Sfumata la possibilità di sentirli insieme ai Gorguts in quel di Brescia, il concerto in programma al Freakout Club di Bologna era quindi per me una tappa obbligata!

Il Freakout è uno di quei piccoli locali molto intimi e dall’aspetto molto lo-fi (e veramente underground poiché si trova praticamente sotto un cavalcavia) che hanno un posto speciale nel mio cuore. Soprattutto quando, come in questo caso, hanno anche il merito di valorizzare le band sul palco facendole uscire al meglio, con suoni e potenza davvero notevoli.

Gli opener Juggernaut sono per me una grande rivelazione. Ammetto che li conoscevo più di nome che di fatto...inevitabile il "mea culpa" per questa lacuna, visto quanto la band romana mi ha colpito dal vivo. E non solo per la gran botta che usciva dalle casse, rendendo immediati e travolgenti i loro pezzi così articolati e complessi. O per i suoni di tutti gli strumenti, molto ricercati e ottimamente calibrati. È la loro musica ad avermi intrigata più di ogni altra cosa. Radici prog metal che si insinuano in trame post hardcore e si frammentano in ritmiche fra jazz e bossa nova. L’onda d’urto dello sludge. La potenza visiva, da colonna sonora, di un cinema italiano di altri tempi (vedi Elio Petri e certi poliziotteschi). Il tutto concentrato in soli 40 minuti di live. Può sembrare incredibile ed ingigantito, ma le impressioni e sensazioni suscitate dal loro concerto sono state davvero queste!

Si cambiano suoni, si aggiunge una voce dal profondo, e mi ritrovo immersa nei Nero di Marte. Anche loro tecnicamente ineccepibili, mi affascinano soprattutto per la mostruosa batteria – che è una vera e propria macchina da guerra di precisione chirurgica – e il cantato di Sean Worrell – sempre dilaniato, urlato e potente dalla prima all’ultima nota. Death metal che pesca anche nel mare del post hardcore e a tratti dello sludge unito ad una ricerca di sonorità e soluzioni che mi porta alla mente i Cynic e i Gorguts, il quartetto bolognese si conferma anche dal vivo una delle più interessanti realtà metal del panorama italiano (e non solo!). Dalle tonalità più trattenute e “introverse”, anche la nuova produzione – presentata per la prima volta in questo concerto – convince e lascia pregustare un nuovo album che sarà l’evoluzione dei due precedenti.

Abbinata particolare - e particolarmente riuscita - di due band italiane che fanno della ricerca e sperimentazione musicale e sonora la loro stella polare. 
[E.R.]
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Nero di Marte + Juggernaut – 05.14.2016 – Freakout Club (Bologna)

With its post-apocalyptic reinterpretation of the most peculiar progressive death metal, Derivae got a place in my heart from the very first listening. So I could not wait to attend to a Nero di Marte concert, to seize the beauty of their music in a live show. Lost the chance to listen to them with Gorguts in Brescia, their show at the Freakout Club in Bologna became compulsory to me! 

Freakout is one of those small venues with a lo-fi and very cozy appearance (and really underground, being almost underneath an overpass) that have got a special appeal to me. Especially when they highlight the value of the bands on stage thanks to outstanding sounds and impact. 

Opener Juggernaut are a great revelation. I have to admit that I knew their name more than their music…so I also have to admit that I blamed my self for this lack! The band from Roma really impressed me a lot. Not only for the incredible energy flowing out of the amps, making their complex songs immediate and overwhelming. Not only for the sounds of all the instruments, extremely refined and wonderfully balanced. What fascinates me above any other thing is their music. Prog metal roots insinuate themselves into post hardcore weaves and get fragmented into jazz and bossa nova rhythms. The shock wave of sludge. The soundtrack visual taste of the Italian cinema of some decades ago (see Elio Petri and a certain “poliziottesco”). The whole in only 40 minutes. It may seems incredible or exaggerated, yet these are the real impressions and feelings their concert aroused in me.
   
Sounds change, there is a voice from the depths of somewhere, and I find myself immersed in Nero di Marte. Technically flawless, they fascinate me especially for the amazing drums – a war machine with surgical precision – and Sean Worrel vocals – always wracked, screamed and extremely powerful from the first to the last note. Death metal that fishes into the sea of post hardcore and – at times – of sludge, combined with a research of sounds and musical solutions that reminds me of Cynic and Gorguts, the live of the quartet from Bologna confirms them as one of the most interesting Italian (and not only!) metal bands. With more “restrained” and introverted tones, even the new stuff – presented for the first time in this concert – hits the target and lets foretaste a new album which could be the evolution of the two forerunners.

Peculiar – and particularly successful – union of two Italian bands that have their North Star in musical and sound research and experimentation. 
[E.R.]

domenica 15 maggio 2016

Calibro 35 - S.P.A.C.E.


Calibro 35 - S.P.A.C.E.
(Record Kicks, 2015)

Dopo aver girato in lungo e in largo nei bassifondi del poliziottesco, i Calibro 35 decollano verso un nuovo genere: la fantascienza. Il funky a tinte noir della band milanese assume gli allucinogeni necessari per esplorare il cosmo, senza per questo abbandonare la vitalità dei lavori precedenti. S.P.A.C.E. è ancora una volta un disco d’azione, ma questa volta gli inseguimenti non avvengono in nebbiose viuzze del centro, a bordo di un Alfa Romeo Giulia, ma tra i cieli del pianeta rosso, a bordo di improbabili astronavi retro-futuribili. Pistole laser al posto di P38, insomma. Sintetizzatori al posto di chitarre. Caldo e carico di groove (grazie anche all’attrezzatura vintage e analogica dei Toe Rag Studios di Londra dove è stato registrato), S.P.A.C.E. aggiunge psichedelia e imprevedibilità space rock (un pizzico di Gong) al classico equilibrio tra frenesia e malinconia che contraddistingue la musica della band. Brani ondeggianti e deformati come A Future Never Lived - oppure mutevoli e rifrangenti come Universe Of 10 Dimensions, o ancora macchiati di cupo jazz come Something Happened On Planet Earth - mostrano quanto i Calibro 35 siano proiettati al di là del genere, qualunque esso sia.
[R.T.]
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Calibro 35 - S.P.A.C.E.
(Record Kicks, 2015)

After a long wander through the slums of poliziottesco, Calibro 35 take off towards a new genre: sci-fi. The noir funky of the band from Milan takes the right hallucinogens to explore the cosmos, without losing the great vitality of the previous releases. S.P.A.C.E. is once again an action album, but this time chases do not take place on an Alfa Romeo Giulia through the foggy alleys of the city centre: they take place on improbable retro-futuristic spaceships through the skies of the red planet. In short, laser guns instead of P38. Synths instead of guitars. Groovy and "warm" (also thanks to the vintage analog equipment of the Toe Rag Studios in London, where the album was recorded), S.P.A.C.E. adds psychedelia and space rock unpredictability (a touch of Gong) to the classic equilibrium of frenzy and melancholy typical of the music of the band. Swaying and deformed songs as A Future Never Lived - or changing and refractive as Universe Of 10 Dimensions, or stained with gloomy jazz as Something Happened On Planet Earth - show how much Calibro 35 are projected beyond the genre, whatever it may be.
[R.T.]

martedì 10 maggio 2016

Desertfest London 2016 - Day 3


Desertfest London 2016 – Day 3
[Electric Wizard + Trouble + Elder + Monolord + Ohhms]

Terzo e ultimo (purtroppo!) giorno di Desertfest. E si riparte scendendo nell’Underworld per sentirci gli Ohhms. Set breve e intensissimo, che lascia senza fiato. L’impatto e la pesantezza che hanno su disco, dal vivo risultano distorte, alterate e rese ancor più viscerali da una marcata componente post-hardcore. La botta creata da chitarre e batteria è impressionante e ingoia il cantato marcio, mentre il basso deraglia nel noise. Il climax creato dai momenti post rock libera la tensione in esplosioni di furia ben sintetizzate dall’attitudine del cantante e del bassista, in perenne movimento. Si è contemporaneamente travolti dalla potenza sludge dei riffs e rapiti da passaggi ed assoli di chitarra che escono fuori con lucida e cristallina bellezza. Mezzora soltanto, ma davvero incredibile.

Dopo un ultimo break nella splendida atmosfera dell’Our Black Heart, vero e proprio cuore del festival, dove i musicisti vengono a bersi una birra insieme agli appassionati arrivati da tutta Europa, ci spostiamo al Koko, il locale che ospita uno dei palchi del Desertfest per la sola giornata conclusiva. 

Entriamo alle 16:00, per rimanere in questo locale dall’aspetto sontuoso fino a fine serata. Circondati da rosse pareti e stucchi dorati-bronzati, scendiamo nella platea (che si sta sempre più affollando!) per goderci il live dei Monolord. Doom ne hai? Questo power trio svedese ne ha da vendere! Quintessenza di pesantezza e lentezza, il loro è uno stoner-doom dal sapore psichedelico che, nel suo essere possente e monolitico, risulta davvero carico di tiro. I suoni sono perfetti – così come la voce di Thomas Jäger che, alterata da riverberi ed echi, sembra provenire da un’altra dimensione – ed esaltano tanto le canzoni del primo album (Empress Rising) quanto del secondo (Vænir), accompagnate da bellissime proiezioni sullo sfondo del palco. Band che se già incanta su disco, dal vivo ha davvero una marcia in più.

Sembrava impossibile, ma il Koko riesce a riempirsi ancora di più: gli Elder devono avere lo stesso potere attrattivo avuto ieri dai Conan. E come ieri saliamo ai piani alti del locale, e ci troviamo un perfetto palchetto da cui seguire il resto delle bands. Se su disco il trio americano colpisce soprattutto per la bellezza prog e psichedelica delle melodie, dal vivo quello che davvero sorprende è la potenza rock delle loro canzoni. L’impatto, la carica e l’energia sprigionate sul palco sono quelle di una grande rock band. E il pubblico, che spesso si lancia in un pogo scatenato, conferma questa impressione. Se la voce di Nick Di Salvo parte forse un po’ in sordina e necessita di un paio di canzoni per riscaldarsi e splendere, musicalmente la band è fin da subito impeccabile e letteralmente trascinante. La complessità dei brani mai offusca l’immediatezza e la carica della loro musica. Il pubblico è esaltato e gli Elder si accaparrano una quantità di applausi, ovazioni ed incitamento davvero mostruosa, ma davvero tutta meritata!

Ed è poi il momento dei Trouble. Oldies but goodies: questa potrebbe essere la ultra-sintetica recensione del loro incredibile concerto. Oltre 35 anni di doom e non sentirli affatto. I pilastri storici della band di Chicago sono i due veterani chitarristi – Rick Wartell e Bruce Franklin – ma di grande impatto è anche il cantante Kyle Thomas, con una voce perfetta e potente per tutta la durata del concerto, e una grinta davvero notevole. Il loro doom metal è carico di Black Sabbath, Iron Maiden, thrash, NWOBHM e anche tanti anni 70, e la loro scaletta – che propone anche alcuni brani del nuovo disco – è davvero esaltante per chi come noi non disdegna affatto il lato più classicamente metal di questo genere. Davvero imperdibili!

Culmine della serata, gli Electric Wizard. Ormai riconosciuti come uno dei massimi nomi in ambito doom metal, sono la degna chiusura del “lato doom” del festival (mentre per il lato più industrial e sperimentale, la chiusura è affidata ai Godflesh che contemporaneamente stanno suonando all’Electric Ballroom). A poco più di 10 anni dal primo concerto della band capitanata da Jus Oborn al quale abbiamo assistito, l’impatto e il fascino dei loro live è immutato. Con la fine del secondo pezzo i suoni raggiungono il bilanciamento perfetto e la potenza delle loro distorsioni travolge l’intero Koko, che si esalta scatenando spesso un gran pogo giù in platea. La scaletta è incentrata soprattutto sulle visioni horror e polverose che dominano la loro musica da Witchcult Today in poi, anche se non mancano dilatazioni cosmiche e allucinogene. La voce di Jus Oborn è perfetta e perfetta è anche la classica abbinata di outtakes di b-movies di film di genere, sempre ricercati e azzeccati. Se il nuovo batterista Simon Poole non ha la devastante potenza di Mark Greening, il suo tocco fluido rende ancora più sottili le tenebrose atmosfere della band.  Il finale è affidato ad una clamorosa versione di Funeralopolis, devastante per la sua bellezza e potenza e che fa letteralmente venir giù l’intero teatro. Una grandiosa conferma, un perfetto finale per questa tre giorni di Desertfest!

Ora non rimane che un’ultima birra all’Underworld (dove intanto è iniziato il party di chiusura con appropriato dj set) e attendere il bill del prossimo anno!
 [E.R.+R.T.]
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Desertfest London 2016 – Day 3
[Electric Wizard + Trouble + Elder + Monolord + Ohhms]

Third and (unfortunately!) last day at Desertfest. And we start this last round going downstairs into the Underworld to listen to Ohhms. Short and extremely intense set: one that leaves you breathless. The impact and heaviness of the albums is altered, distorted and made more visceral during the concert thanks to a marked post-hardcore element. The huge sound of guitars and drums is really impressive and it swallows the rotten vocals, while the bass derails into noise. The climax created by post rock openings releases tension in bursts of fury well represented by singer and vocalist – constantly moving back and forth on stage. We are simultaneously overwhelmed by the sludgy power of riffs and enchanted by passages and solos of guitar of crystalline beauty. Just a half hour, yet really stunning.

After a last break in the fantastic atmosphere of Our Black Heart – the real heart of the festival, where musicians have their beer together with fans from all Europe – we move to Koko, venue of one of Desertfest stages just for the last day.

We enter this luxurious venue at 4:00 p.m. and we exit only at the end of the whole evening. Surrounded by red walls and golden-bronzed stucco, we go down into the stalls (getting more and more crowded!) waiting for Monolord live. Do you play doom? Well, this Swedish power trio plays doom in its purity! Quintessence of heaviness and slowness, their stoner-doom has got a psychedelic taste which sounds really groovy even in its being so massive and monolithic. Sounds are perfect – as it is Thomas Jäger voice (altered by reverbs and echoes it seems to come from another dimension) – and they enhance the beauty of the songs of both their two full-lenghts (Empress Rising and Vænir), together with fantastic videos on the back of the stage. If this band enchants on records, in the live dimension it definitely has got a leg up.

It almost seems impossible, but Koko gets even more crowded: Elder should have the same charm and power of attraction of Conan. We decide to go upstairs and we find a perfect box to enjoy the rest of the bands. If the American trio strikes for the progressive and psychedelic beauty of their melodies on recordings, live they really impressed us for the rock power of their songs. The impact and energy unleashed on stage are those of a great rock band. The mosh confirms this impression. If Nick Di Salvo voice needs a couple of songs to warm up and shine, musically the band is literally flawless and enthralling from the very first note. The complexity of their songs never dims the immediacy and groove of their music. The audience is thrilled and Elder get a tremendous amount of applause and ovations…all really deserved!

Then it is time for Trouble. Oldies but goodies: this could be the ultra-brief review of their amazing concert. Over 35 years of doom and not showing them at all. The historic pillars of the band from Chicago are the two veteran guitarists – Rick Wartell e Bruce Franklin – but of great impact is also the singer Kyle Thomas, with a perfect and powerful voice for the entire show and a really impressive oomph. Their doom metal is full of Black Sabbath, Iron Maiden, thrash, NWOBHM and also a lot of 70s, and their setlist – including also some tracks of their latest album – is really exciting for us lovers of the more classically metal side of this genre. Unmissable!

Then the peak of the evening: Electric Wizard. Acknowledged as one of the most important names in doom metal, they are the worthy closing act of the “doom side” of the festival (while for the more industrial and experimental one the closing act is entrusted to Godflesh, simultaneously playing at the Electric Ballroom). 10 years from our first concert of the band headed by Jus Oborn and the impact and fascination of their live is unchanged. At the end of the second song sounds find their perfect balance and the power of their distortions overwhelms the whole Koko – and there are frequent bursts of mosh into the stalls. The setlist is focused on the dusty horror visions dominating their music from the times of Witchcult Today, yet there is still room for cosmic hallucinogen dilations. Jus Oborn voice is perfect and perfect is the classic pairing with outtakes from horror-creepy-esoteric movies. If new drummer Simon Poole does not have the devastating power of Mark Greening, yet his fluid touch makes even more subtle the dark atmospheres of the band. The final is an incredible version of Funeralopolis, devastating for its beauty and power and able to bring down the whole theatre. A great confirmation, a perfect ending for these three days of Desertfest!

Another last beer at the Underworld (where the closing party has started with its proper dj set) and…the countdown for the bill of the upcoming edition!
[E.R.+R.T.]






venerdì 6 maggio 2016

Desertfest London 2016 - Day 2


Desertfest London 2016 – Day 2
[Russian Circles + Samothrace + Spider Kitten + Conan + Monomyth]

H 14.30, Electric Ballroom: Monomyth. La seconda giornata inizia da questo palco ed inizia davvero alla grande.  Con la musica della band olandese ci troviamo dentro ad uno space rock strumentale altamente ipnotico e coinvolgente, figlio dei primi Ozric Tentacles, con qualche magnetico assaggio di kosmische musik che sembra uscito da Phaedra dei Tangerine Dream. Sono continue colate di lava lisergica che travolgono e al tempo stesso innalzano l’ascoltatore. È il primissimo pomeriggio di una soleggiata giornata di primavera, ma ben presto si perdono le coordinate spazio-temporali e si finisce con l’oscillare e “volteggiare” sui ritmi ipnotici e trascinanti di basso e batteria (alla quale siede Sander Evers già batterista dei 35007), nonché sui perfetti intrecci di melodie psichedeliche orchestrate dalla sinergia di chitarra, synth e tastiere. Semplicemente perfetti, i Monomyth si guadagnano un posto sul podio delle migliori band ascoltate a questo Desertfest!

Restiamo all’Electric Ballroom, ma saliamo al primo piano in attesa dei Conan. Vista la quantità di gente che si sta ammassando nel locale - nonché la quantità di magliette, cappellini e patch della band di Liverpool indossate dal popolo del Desertfest! – e considerato il devastante sound del combo inglese, non possiamo che attenderci che venga giù l’intera struttura. Ed in effetti l’impressione è quella giusta. Sono solo le 16:00 e si tratta della seconda band su questo palco, ma l’accoglienza è quella riservata agli headliner (e dopo il concerto scopriamo che ci sono persone che se li sono persi perché il locale era completamente pieno!). E se la meritano tutta! Lo sludge cavernoso e sporco del power trio si riversa sul pubblico con ondate di potenza marcescente, resa ancora più densa dall’accordatura ribassatissima e resa ancora più disturbante dal cantato da strega cattiva morente, che anche dal vivo mantiene tutta la sua aura di grezza malvagità. Una band che meritatamente innalza l’orgoglio britannico, arrivando a rivaleggiare con i nomi più blasonati del genere, per lo più statunitensi. Il tutto arricchito dalle proiezioni degli straordinari video della band.

È il tempo di prendersi una pausa birra e tornare a vedere un po’ di sole dal “giardinetto” di Greenland Place. Al breve scorcio di cielo e luce, segue la risalita nell’ombra dell’Our Black Heart per goderci il live degli Spider Kitten attaccati a loro, quasi si fosse sul palco anche noi. È inutile: il fascino dei piccoli club è per noi imbattibile! Con la pesantezza di alcuni degli album più belli dei Melvins (Bullhead, per dirne uno) ed il cantato sdoppiato allucinato alla Alice In Chains, la band di Cardiff suona uno stoner-doom potente e sbilenco che cattura tutto il pubblico presente. La batteria è davvero magistrale ed è quasi la struttura portante dei riff di chitarra dal suono e dalla potenza davvero travolgenti. L’intreccio melodico delle voci si combina perfettamente ai suoni pesantissimi e schiaccianti, che non fanno che accentuare il potere stordente della loro musica. Una delle rivelazioni di questo pomeriggio!

La prossima tappa di questa seconda giornata di festival è l’Underworld con il concerto dei Samothrace. Droni e muri di suono come non ci fosse un domani. Tutto si rallenta, si tende all’immobilità. Di fronte ad un batterista che dà legnate pazzesche a dei piatti “che più alti non si può” e ad un cantante che stride e sibila nel microfono, si rimane impantanati nei loro riffs e nelle loro melodie dilatate. Musica perfetta per questo sotterraneo, nel quale la forza annichilente delle distorsioni viene amplificata da suoni straordinari. C’è la frastornante ipnosi degli Earth in questa interessantissima band americana. Peccato riuscire a sentire solo mezz’ora scarsa del loro concerto: anche oggi il Desertfest è sold out e gli headliner dell’Electric Ballroom richiamano la nostra presenza, non possiamo rischiare di rimanere fuori su Camden High Street.

Ed eccoci al cospetto dei Russian Circles. Un tuffo indietro nel tempo, per ripescare il momento d’oro in cui post-core e post-rock si fondevano in una nuova entità musicale. Il trio di Chicago mostra quanto questa musica possa suonare ancora attuale nel 2016, e si dimostra dal vivo perfino superiore ai massimi nomi del genere nel loro momento di massimo splendore. La malinconia contemplativa e sognante tipica del post-rock è resa oscura e misteriosa grazie ad atmosfere vicine al post black metal, mentre ossessivi intrecci di arpeggi generano strutture labirintiche. Quel che colpisce maggiormente di questo gruppo è quanto il loro sound risulti più potente, dinamico e diretto dal vivo grazie alla batteria di Dave Turnkrantz: l’arma in più che spesso è mancata ai giganti del genere. In questa esplosione di energia non vengono offuscate, ma anzi assumono nuovi riflessi, le atmosfere “filmiche” che da sempre sono il loro marchio di fabbrica. I Russian Circles dimostrano di possedere tutta la carica elettrica classicamente associata al power trio, ma anche tutta la complessità e la capacità melodico/atmosferica di un band di rock progressivo. Grandiosi! 
[E.R.+R.T.]
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Desertfest London 2016 – Day 2
[Russian Circles + Samothrace + Spider Kitten + Conan + Monomyth]

H 2.30 pm, Electric Ballroom: Monomyth. The 2nd day of the festival begins from this stage and it really starts in the best way. With the music of the Dutch band we find ourselves immersed in a highly hypnotic and compelling instrumental space rock, son of the early Ozric Tentacles and with magnetic hints of kosmische music reminiscent of Tangerine Dream Phaedra. Continuous flows of lysergic lava overwhelming and at the same time elevating the listener. It is the early afternoon of a sunny springtime day, but we soon loose space-time coordinates and we start swaying and twirling on the hypnotic enthralling rhythms of bass and drums (where we find Sander Evers, formerly with 35007) and on the perfect weavings of psychedelic melodies of guitar, synth and keyboars. Simply flawless, Monomyth gain their place on the podium of the best bands at this Desertfest!

We remain at the Electric Ballroom, but we go upstairs waiting for Conan. Considered the huge crowd getting into the venue – as well as the enormous quantity of t-shirts, caps and patches of the Liverpool band worn by Desertfest people! – and the devastating sound of the English combo, we can only expect that the hall collapses onto itself. And we have to say we were right. It is just 4:00 pm and it is only the second band on this stage, yet the welcome is that usually reserved to headliners (and after the show we even discover that there were people who were not able to get into the venue because it was fully packed!). They totally deserve this welcome! The power trio dirty cavernous sludge flows onto the audience with waves of rotting power – made thicker by the ultra-lowered tuning and more disturbing thanks to the “dying-wicked-witch” singing which keeps its raw wickedness even in the live dimension. This band deservedly raises British pride, being able to compete with the most blazoned names of the genre (usually American). The whole enriched by the extraordinary videos of the band.

It is time for a beer break and a glimpse of sun from the “courtyard” of Greenland Place. After this quick moment of light, we go into the darkness of Our Black Heart to listen to Spider Kitten - almost stuck to them, almost on stage with them. It is evident: we are definitely fascinated by small clubs! With the heaviness of some of the most beautiful Melvins records (Bullhead, just to mention one of them) and the Alice-In-Chains-like doubled hallucinated vocals, the band from Cardiff plays a mighty crooked stoner-doom capable of enchanting all the presents. Drums are masterly and are almost the load-bearing structure of guitar riffs with really enthralling sound and power. The melodic weaving of vocals perfectly matches with the ultra-heavy sounds, enhancing the stunning force of their music. One of the revelations of this afternoon!

The next leg of this second day of the festival is The Underworld with Samothrace concert. Drones and walls of sounds “as if there were no tomorrow”. Everything slows down, there is a tendency to immobility. Facing a drummer giving crazy strokes on ultra high cymbals and a singer screeching and hissing into the microphone, we get bogged down in their riffs and dilated melodies. Perfect music for this basement in which the annihilating power of distortions is amplified and enhanced by amazing sounds. There is Earth dazing hypnosis in this really interesting American band. It is a real pity to be able to listen to just a half hour of their live: even today Desertfest is sold out and we cannot miss Electric Ballroom headliner, we cannot risk to remain out of the venue on Camden High Street.

Here we are in the presence of Russian Circles. A blast from the past, to the golden age in which post-core and post-rock melt together into a new musical entity. The trio from Chicago shows how much this genre can sound modern even in 2016, and it proves to be able to play even greater shows than the most famous names of the genre in their heyday. The oneiric contemplative melancholy typical of post-rock is made darker and mysterious thanks to almost post black metal atmospheres, while obsessive weavings of arpeggios build mazy structures. What is most impressive in this band is how much they sound more powerful, dynamic and direct in concert thanks to Dave Turnkrantz drums: the ace in hole which often lacked to the giants of the genre. In this burst of energy, the filmic atmospheres (always a trademark of the band) are not clouded, yet they get new hues. Russian Circles prove to have all the electric power usually associated with the power trio and at the same time the complexity and melodic sensitivity of a progressive rock band. Awesome!
[E.R.+R.T.]




mercoledì 4 maggio 2016

Desertfest London 2016 – Day 1


Desertfest London 2016 – Day 1
[Corrosion of Conformity + Crowbar + Asteroid + Guapo]

Aereo, metro, arrivo a Camden, scarico bagagli all’albergo e finalmente l’arrivo al quartier generale del Desertfest – Greenland Place e l’Our Black Heart - e l’apposizione del nero bracciale al nostro polso. Che il nostro Desertfest abbia inizio, e che lo abbia proprio da qui.

Saliamo su nel buio dell’Our Black Heart giusto in tempo per le prime note dei Guapo. In questa specie di soffitta - dal meraviglioso sapore dell’underground - ci troviamo di fronte una band decisamente più sporca, grezza e potente di quanto appaia su disco. Tastiere e strumenti a fiato dei più disparati (da una più classica cornamusa fino ad un flauto dalla forma di una pipa schiacciata, passando per altri strumenti curiosi) sono sicuramente il tratto distintivo di questo live, che però non risulta solo venato di prog (canterburyano), ma è anche estremante lo-fi, distorto, a tratti perfino viscerale. Il pubblico, che spazia dal metallaro all’“hippie che si è visto i Soft Machine nel 1968”, si perde nelle visioni psichedeliche, cervellotiche e ossessive della band, forse non sempre precisissima, ma anche per questo lontana dalla visione accademica del rock progressivo e più vicina a quella sperimentale e un po’ folle.

Ci spostiamo all’Electric Ballroom (dove rimaniamo per il resto della serata) e ci lasciamo travolgere dagli Asteroid e dal loro stoner rock carico di psichedelia e hard/blues, a cavallo tra anni 60 e 70. Dal vivo la voce del bassista Johannes Nilson – che canta in un paio di pezzi oltre a fare i cori nei restanti - non è sempre impeccabile, ma quella del chitarrista Robin Hirse – sporca e da hardrocker – domina e trascina l’ascoltatore. Il loro è un sound che possiede gli aromi di una buona birra e tutta la carica positiva che scorre nell’aria di un evento come quello del Desertfest, che nell’arco di cinque edizioni è diventato uno dei più interessanti festival dedicati a queste sonorità. L’asse portante del trio svedese è la perfetta accoppiata tra basso e chitarra: i riff del primo, sia a livello ritmico che melodico, sono la colonna vertebrale sulla quale la seconda snoda calore valvolare, melodie sinuose e passaggi dilatati. Il pubblico è davvero esaltato, e la loro scaletta si amplia per più di venti minuti oltre il previsto, grazie ai continui applausi e ai richiami dei presenti (noi due compresi).

Sterzata decisa e brusca con l’arrivo dei Crowbar sul palco. Come una macina distruggono in un attimo tutte le visioni psichedeliche indotte dai gruppi precedenti. Il loro sludge metal è pesante come un elefante, e manifesta la sua “volgare esibizione di potere” con una carica di volume assolutamente spaventosa. Il tasso alcolico dei distortissimi riffs è quello tipico del southern stoner, con tutta la furia del thrash metal e l’incazzatura dell’hardcore. Le chitarre sono assolutamente metal e la batteria è una macchina da guerra. Alla testa di questa formazione d’assalto l’unico storico membro - Kirk Windstein – con la sua sudicissima e potentissima voce. Un’ora di sfuriate che stende l’ascoltatore e che rappresenta una vera e propria lezione per gran parte dei gruppi recenti che si definiscono sludge. Nell’assoluta assenza di compromessi della loro musica è racchiusa l’essenza di questo genere: ultimamente in voga, ma che raramente riesce a raggiungere picchi di bestialità come in questo caso.

Spossati dalla ignobile pesantezza dell'attacco frontale dei Crowbar, saliamo al piano superiore dell’Electric Ballroom per assistere al concerto degli headliner della serata, i Corrosion of Conformity. Posizione perfetta anche dal punto di vista acustico (la musica della band ci investe con suoni assolutamente impeccabili), il loro concerto è l’apice della giornata. La band è tecnicamente perfetta e Pepper Keenan ha energia da vendere e una voce da paura, che non si incrina neanche per un attimo per l’intera ora e mezzo dello show. Il loro southern stoner, al tempo stesso massiccio e caldo, heavy e blueseggiante, dal vivo possiede un’energia travolgente che non consente di star fermi, e mostra inattesi spunti psych nelle parti soliste, grazie a dilatazioni e riarrangiamenti, che raggiungono il culmine nel bis, con chitarre e ritmiche espanse e sfilacciate che danno una nuova prospettiva a molti brani. Una trascinante macchina da riff, che si concentra soprattutto sui pezzi del capolavoro Deliverance, regalando un concerto davvero grandioso, che infiamma il pubblico di un Electric Ballroom tutto esaurito. Un solo aggettivo: “mostruosi”.

Prima giornata capitanata da due gruppi che ormai possono essere considerati la storia di certe sonorità, ma che hanno mostrato denti aguzzi e unghie affilate, e nessuna voglia di essere catalogati nella sezione “passato” di questo genere.
 [E.R. + R.T.]
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Desertfest London 2016 – Day 1
[Corrosion of Conformity + Crowbar + Asteroid + Guapo]

Flight, tube, arrival at Camden, luggage left at the hotel and finally the head quarter of the Desertfest – Greenland Place and Our Black Heart – and the black lace on our wrists. Let our Desertfest begin, and let it begin exactly from here.

We go upstairs in the dark of Our Black Heart right in time for the first notes of Guapo. In this sort of attic – with the wonderful taste of underground – we face a definitely dirtier, rawer and mightier band than on recordings. Keyboards and the most varied woodwinds (from a more classic bagpipe to a flute shaped as a flattened pipe, passing through many other curious instruments) are surely the hallmark of this live, which is not only (Canterbury) prog-veined, but it sounds also extremely lo-fi, distorted, at times even visceral. The audience – from the metalhead to the “hippie-who-saw-Soft-Machine-in-1968” – gets lost into the psychedelic, brainy, obsessive visions of the band – not always extremely accurate, yet exactly for this reason a bit far from the academic vision of prog rock and much nearer to an experimental and a bit crazy one.

Then we move to the Electric Ballroom (where we spend the rest of the night) and we let ourselves to be overwhelmed by Asteroid and their stoner rock full of psychedelia and hard/blues, halfway between 60s and 70s. In the live show, bassist Johannes Nilson voice (he sings in a couple of songs and he is the backing vocals in the others) is not always flawless, yet guitarist Robin Hirse one – dirty and hardrocker style – dominates and enthralls the listener. Their sound has got the flavour of a good beer and all the positive charge flowing in the air of an event such Desertfest, become in just five years one of the most interesting festival for these sounds. The backbone of the Swedish trio is the perfect combination of bass and guitar: riffs of the first one are – both for the rhythm and the melody – the pillar on which the second unleashes its valvular warmth, constructing sinuous melodies and dilated passages. The audience is excited, and their setlist is amplified of over 20 minutes, due to the continuous applause and acclamation of all the presents (including us two).

Strong, abrupt swerve when Crowbar gets on stage. As a grind they destroy in a moment all the psychedelic visions induced by the other bands. Their sludge metal is heavy as an elephant and it shows its “vulgar display of power” with an absolutely appalling volume.  The alcohol level of the ultra-distorted riffs is that typical of southern stoner, enhanced by thrash metal fury and hardcore rage. Guitars are definitely metal and drums are a war machine. Leading this assault lineup the only historic member – Kirk Windstein – with his super-filthy and super-powerful voice. One hour of continuous fits of anger that knockouts the listener and that is a lesson for the most part of the recent bands defining themselves as sludge. With no compromise at all their music embodies the essence of this genre: “popular” nowadays, but rarely able to reach the peaks of bestiality of this band.

Worn out by the extreme heaviness of Crowbar frontal assault we go upstairs to attend to the show of this evening headliner Corrosion of Conformity. Perfect location even from the acoustic point of view (we are overwhelmed by flawless sounds), their concert is the climax of this first day of the festival. The band is technically perfect and Pepper Keenan has got an incredible energy and an incredibly amazing voice, faultless for the whole hour and half of the show. Massive and warm, heavy and bluesy, in the live dimension their southern stoner has got an enthralling energy with some psych hints in the solos, also thanks to dilations and arrangements that reach their peak during the encore, with expanded guitars and rhythms giving a new perspective to many of their songs.  A rousing riffs machine, especially focused on their masterpiece Deliverance, performing a magnificent concert that inflames the sold out Electric Ballroom. One only adjective: extraordinary.

First day headed by two bands that can properly be considered the history of these sounds, but that have shown sharp teeth and nails and no will at all to be catalogued in the “past” section of this genre.
[E.R. + R.T.]