giovedì 31 maggio 2018

Stones From the Hill - V Edition – High Reeper + Tuna de Tierra + Rancho Bizzarro – 01.05.2018 - Secret Show (Cecina, LI)

 

Stones From the Hill - V Edition – High Reeper + Tuna de Tierra + Rancho Bizzarro – 01.05.2018 - Secret Show (Cecina, LI)

Primo maggio: bella giornata di Sole da trascorrere in mezzo alla natura, con amici, grigliata e birra, ad un festival stoner rock. Sembra tutto perfetto. Poi il maltempo stravolge i piani. Per fortuna il festival viene spostato in un luogo riparato, senza che questo danneggi l’atmosfera dell’evento.

Il nostro Stones from the Hill inizia dal Rancho Bizzarro. Il loro desert rock strumentale suona meno secco e asciutto rispetto ai primi concerti ai quali avevamo assistito, e sembra aver assorbito l’umidità presente nell’aria fino a gonfiarsi e aver sviluppato nuove forme vegetali sulla sua superficie, nuove sfumature che certamente ne arricchiscono i contorni. La band suona decisamente più potente e compatta, ma anche più rotonda, come un cactus in continua crescita nel deserto americano. Un cactus dal quale gli assoli di chitarra spuntano come spine acuminate e arroventate, e inaspettate aperture evocative sbocciano come fiori.

Mentre intorno a noi continua imperterrito il diluvio, altri suoni del deserto ci accompagnano. Se il Rancho Bizzarro è un cactus, i Tuna de Tierra sono una pianta di peyote. Psicoattivi tanto nelle parti più morbide e avvolgenti, quanto in quelle robuste e obnubilanti, riescono a sollevare vere e proprie dune con i loro suoni sabbiosi, carichi di frequenze medie. Dune nelle quali sembra di impantanarsi da tanto sono dense, ma dalle quali riusciamo a tirar fuori le caviglie grazie ad una batteria davvero potente e carica di groove (rallentato). Per lo più strumentali, convincono però anche nelle rare parti cantante, più libere e sciolte che su disco. Alla fine del loro concerto l’aria pare diventata secca e asciutta, nonostante continui a piovere. Urge una birra.

La birra ce la offrono gli americani High Reeper, con il loro hard rock alcolico che chiude la giornata con un concerto divertentissimo. Fin dal primo riff si capisce che i cinque di Philadelphia abbracciano pienamente la filosofia “You can only trust yourself and the first six Black Sabbath albums”. Il loro mondo si è fermato a metà anni settanta, e io (che a quei tempi non ero ancora nato!) con loro. Stasera non mi interessa ciò che è successo dopo l’uscita di Ozzy dal primo nucleo dei Sabbath. Quello che conta sono i riff obliqui e sottilmente malvagi, che con estrema semplicità ondeggiano creando un groove travolgente. Purtroppo la voce di Zach Thomas non ha la pienezza che mostra su disco, indebolita da un'influenza, che però non gli impedisce di dimenarsi come fosse posseduto dallo spirito del rock n’ roll. Spirito che si impossessa anche di me, ricordandomi che a volte bisogna prendersi del tempo per scapellare meglio.
[R.T.]

 


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Stones From the Hill - V Edition – High Reeper + Tuna de Tierra + Rancho Bizzarro – 01.05.2018 - Secret Show (Cecina, LI)

May 1st: a beautiful sunny day to be spent in the middle of nature, with friends, grilled food and beer, at a stoner rock festival. Everything seems perfect. Then bad weather distorts our plans. Fortunately, the festival is moved to a sheltered place, without damaging the atmosphere of the event.

Our Stones from the Hill starts at Rancho Bizzarro. Their instrumental desert rock sounds less dry than in the first concerts we attended, and it seems to have absorbed the humidity of the air until it swelled and developed new vegetal forms on its surface, new nuances that certainly enrich its shape. The band sounds decidedly more powerful and compact, like a cactus growing in the American desert. A cactus from which guitar solos sprout like sharp and red-hot spines, and unexpected evocative openings bloom like flowers.

While the flood continues undauntedly around us, other sounds of the desert keep us company. If Rancho Bizarro is a cactus, Tuna de Tierra are a peyote plant. Psychoactive both in the softer enveloping parts, as in the robust mesmerizing ones, they manage to lift real dunes with their sandy sounds, rich in medium frequencies. Dunes so dense that it seems to get bogged down inside them, but from which we can pull out the ankles thanks to a really powerful and full of (slowed down) groove drum. Mostly instrumental, they are effective even in the rare vocal parts, more loose than on record. At the end of their concert the air seems to have become dry, although it continues to rain. I need a beer.

The beer is offered by the American High Reeper, with their alcoholic hard rock ending the day with a ultra-funny concert. Since the first riff we understand that the five from Philadelphia fully embrace the philosophy "You can only trust yourself and the first six Black Sabbath albums". Their world stopped in the mid seventies, and I (who in those days I had not yet been born!) with them. Tonight I do not care what happened after Ozzy left Sabbath. What matters are the slanting and subtly evil riffs, which with extreme simplicity sway creating an overwhelming groove. Unfortunately, Zach Thomas voice does not have the fullness it shows on album, weakened by a flue, that anyway does not prevent him from wriggling as if he was possessed by the spirit of rock n 'roll. Spirit that takes possession of me too, reminding me that sometimes you have to take time to better headbang.
[R.T.]



lunedì 28 maggio 2018

Fu Manchu – Clone of the Universe


Fu Manchu – Clone of the Universe
(At the Dojo, 2018)

Se esiste un gruppo che è stato in grado di trasformare in musica la sensazione di velocità e libertà provata da uno skater, quel gruppo sono i Fu Manchu. La band californiana ha trasportato su strada la tavola da surf (con tutto il suo armamentario di melodie luminose e sensazioni psichedeliche) con un’accelerazione sfrenata tipica dell’hardcore e l'aggiunta del puzzo del gas di scarico di qualche assurdo dragster sparato a mille. Il tutto con una passione per le fluide e spettacolari acrobazie che solo l’hard rock settantiano poteva regalare alla tavola. Scott Hill dimostra di possedere ancora il coraggio e la spensieratezza di uno skater adolescente, ma anche l’esperienza di un veterano. Con il dodicesimo disco della sua band, Hill si diverte in una serie di tricks spericolati, magari non inediti, ma comunque spettacolari. La tavola flippa in aria durante i pompatissimi riff stoner di Intelligent Worship, corre sparatissima in una discesa hardcore in Don’t Panic, oppure scivola sinuosa su una halfpipe nella psichedelica e gommosa Slower than Light. Se nella sua prima metà Clone of the Universe è un compendio (esaltante) dello stoner rock californiano degli anni '90, nella sua seconda metà possiede anche parte della fantasia di quei tempi, diventando una surreale cavalcata in una piscina deserta. Nei 18 minuti de Il Mostro Atomico c’è la sensazione di esser entrati di nascosto nel giardino di una villa da un buco nella rete, aver acceso qualche canna ed essersi lanciati (al rallentatore) in rilassate acrobazie in una piscina dai bordi morbidi e tondeggianti. L’heavy psych concepito dai californiani è un insieme di riff di cemento tenuti insieme dagli assoli della chitarra di Alex Lifeson dei Rush (uno che di lunghe suite se ne intende), e che, anche grazie a questo ospite d’eccezione, assume le sembianze di un viaggio interstellare a bordo di un disco volante di un qualche B-movie anni 50. E’ in questi 18 minuti che i Fu Manchu dimostrano di essere ancora quei ragazzini che, con una tavola e una chitarra, erano stati in grado di concepire alcuni dei capolavori dello stoner rock.
[R.T.]
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Fu Manchu – Clone of the Universe
(At the Dojo, 2018)

If there is a band that has been able to turn into music the sensation of speed and freedom experienced by a skater, that band is Fu Manchu. The Californian combo transported the surfboard (with all its paraphernalia of luminous melodies and psychedelic sensations) on the road, with an unbridled acceleration typical of hardcore and the addition of the stink of the exhaust fumes of some absurd dragster running at full speed. All this with a passion for the fluid spectacular acrobatics that only Seventies hard rock could give to the board. Scott Hill proves he still has the courage and carefree attitude of a teenage skater, but also the experience of a veteran. With the twelfth record of his band, Hill has fun in a series of daring tricks, maybe not new, yet spectacular. The board flips in the air during the ultra-pumped stoner riffs of Intelligent Worship, runs fast in a hardcore descent in Don't Panic, or slips sinuously on a halfpipe in the psychedelic Slower than Light. If in its first half Clone of the Universe is an (exciting) compendium of the 90s Californian stoner rock, in its second half it also has got part of the fantasy of those times, becoming a surreal ride in a desert swimming pool. In the 18 minutes of Il Mostro Atomico there is the feeling of having secretly entered in the garden of a house through a hole in the net, having lit some joints and having launched (in slow motion) in relaxed acrobatics inside a pool with soft rounded edges . The heavy psych conceived by the Californians is a set of concrete riffs held together by Alex Lifeson (Rush) guitar solos, and that, thanks to this extraordinary guest, takes the appearance of an interstellar voyage aboard a flying saucer from some 50s B-movie. It is in these 18 minutes that Fu Manchu prove to be still those kids who, with a board and a guitar, were able to conceive some stoner rock masterpieces.
[R.T.]

mercoledì 23 maggio 2018

Earthless - Black Heaven


Earthless - Black Heaven
(Nuclear Blast, 2018)

Un negozio di dischi che diventa un punto di riferimento per tutti quelli che si sentono fuori contesto e fuori moda. Questo luogo, dove musicisti ed ascoltatori si incontrano e si scambiano idee, è il primo nucleo di quella scena che nell'arco di pochi anni ha reso San Diego la "nuova alba" della rinascita hard psichedelica. I due gestori del negozio (Mario Rubalcaba e Mike Eginton), insieme ad un talentuoso chitarrista (Isaiah Mitchell), mettono in musica la loro passione per un rock improvvisato, fantasioso, esplosivo e privo di limitazioni, sotto il nome Earthless. Dopo aver riportato il rock alla sua essenza grezza e viscerale, attraverso lunghe divagazioni dilatate, sinuose e lisergiche, ispirando un'intera generazione di musicisti della città californiana, gli Earthless tornano sulla Terra con Black Heaven. Le canzoni perdono quel pulviscolo cosmico che rendeva imprevedibili i contorni dei dischi passati, suonando adesso compatte, decise e robuste (meno Guru Guru e più Led Zeppelin). La traiettoria seguita dalla navicella spaziale è più diretta e lineare che in passato, per quanto i raggi cosmici della chitarra e le esplosioni solari della sezione ritmica deformino costantemente il tragitto. Una tappa intermedia al Rancho de la Luna per respirare l'aria del deserto terrestre e fare il pieno di combustibile heavy blues e poi il trio riparte a tutta velocità (e a tutto groove). Ma la cosa che ha cambiato maggiormente il modo di viaggiare del trio è la presenza di un essere umano alla guida dell'astronave. La splendida voce nasale di Isaiah Mitchell è il segreto che gli Earthless nascondevano negli abissi cosmici (e in passato mostravano solo raramente). Riportare questo comandante sul nostro pianeta significa tornare in quel negozio di dischi, ben piantato in un luogo preciso del pianeta Terra, dal quale tutto è cominciato. Un viaggio di ritorno che possiede la forza e l'ispirazione di chi ha intravisto un mondo diverso al largo dei bastioni di Orione, e corre a dirlo agli amici, ancora intenti a decollare.
[R.T.]
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Earthless - Black Heaven
(Nuclear Blast, 2018)

A record store that becomes a point of reference for all those who feel out of context and out of fashion. This place, where musicians and listeners meet and exchange ideas, is the first nucleus of that scene that in a few years made San Diego the "new dawn" of hard psychedelic rebirth. The two store managers (Mario Rubalcaba and Mike Eginton), along with a talented guitarist (Isaiah Mitchell), bring to music their passion for improvised, imaginative, explosive rock with no limitations, under the name Earthless. After bringing rock back to its raw visceral essence, through long dilated, sinuous and lysergic ramblings, inspiring an entire generation of Californian musicians, Earthless return to Earth with Black Heaven. Songs lose that cosmic dust that made the contours of the past records unpredictable, playing now compact and direct (less Guru Guru and more Led Zeppelin). The trajectory followed by the spacecraft is more direct and linear than in the past, although the cosmic rays of the guitar and the solar explosions of the rhythmic section constantly deform the route. An intermediate stop at Rancho de la Luna to breathe the air of the terrestrial desert and fill up with heavy blues and then the trio leaves again at full speed (and all groove). But what really changed the way the trio travels is the presence of a human being driving the spaceship. Isaiah Mitchell's beautiful nasal voice is the secret Earthless hid in the cosmic abysses (and that in the past they only rarely showed). Bringing this captain back to our planet means going back to that record store, in a specific place on planet Earth, from which it all began. A return journey that has the strength and inspiration of those who have glimpsed a different world off the bastions of Orion, and tell it to friends, still intent on taking off.
[R.T.]

venerdì 18 maggio 2018

Humulus – Reverently Heading into Nowhere


Humulus – Reverently Heading into Nowhere
(Taxi Driver, Oak Island Records, 2017)

Ci sono convivenze apparentemente naturali, ma che per un motivo o per un altro non riescono a svilupparsi. E’ il caso di due generi cardine del rock alternativo degli anni '90: il grunge e lo stoner. Nati e sviluppatisi in contesti molto diversi e con opposte poetiche e visioni della vita, raramente hanno dato vita ad una unione fruttuosa, nonostante le evidenti affinità stilistiche. Di rado l’introspezione disillusa di Seattle ha convissuto con l’energia e la "spiritualità" dei deserti californiani. Colpisce quindi subito Reverently Heading into Nowhere, secondo disco degli Humulus in cui la voce caldissima e profonda di Andrea Van Cleef (che richiama tanto Mark Lanegan quanto Mark Sandman) si insinua in riff pompatissimi e giganteschi che si muovono al rallentatore in puro stile stoner doom. Un gusto per la melodia inatteso in un genere spesso focalizzato esclusivamente sul tiro e sul potere allucinogeno delle divagazioni psichedeliche (qui reinterpretate con efficace semplicità e senso della misura). Caratteristiche queste che non mancano certo nella musica della band lombarda, ma che sono impreziosite da melodie mature e malinconiche che confermano quanto i due generi citati possano convivere con risultati davvero coinvolgenti.
[R.T.]
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Humulus – Reverently Heading into Nowhere
(Taxi Driver, Oak Island Records, 2017)

There are apparently natural cohabitations, yet for some reasons they cannot develop. It is the case of two fundamental genres of 90s alternative rock: grunge and stoner. Born and developed in very different contexts and with opposite poetic and visions of life, they seldom gave birth to a fruitful union, despite the obvious stylistic affinities. Rarely Seattle disillusioned introspection coexisted with the energy and "spirituality" of California deserts. So you are immediately impressed by Reverently Heading into Nowhere, second record of the Humulus in which Andrea Van Cleef warm deep voice (recalling Mark Lanegan as much as Mark Sandman) insinuates into pumped up gigantic riffs moving in slow motion in pure stoner doom style . An unexpected taste for melody in a genre often exclusively focused on groove and hallucinogenic power of psychedelic digressions (here reinterpreted with effective simplicity and sense of measure). These features are certainly not lacking in the music of the Lombard band, but they are enhanced by mature melancholy melodies that confirm how the two mentioned genres can live together with truly engaging results.
[R.T.]

mercoledì 16 maggio 2018

Usnea - Portals into Futility


Usnea - Portals into Futility
(Relapse Records, 2017)

Portals into Futility è un funerale che non si svolge in un luogo sacro. Nessun aldilà, né tantomeno divinità, cui affidare i resti mortali. Il lento e pesante incedere della processione funebre conduce sull'orlo dell'abisso. Qui saranno gettate le ceneri. Nel vuoto. Attraverso i portali dai quali tutto è pervenuto, dove tutto è destinato a tornare, inevitabilmente. Gli Usnea si affacciano sulla voragine e gridano il loro  nichilismo cosmico con distorsioni gigantesche e growl cavernoso, con atmosfere opprimenti e urla lancinanti, ma anche con arpeggi malinconici che generano echi infiniti. Cinque lunghi brani di purissimo ed Esoteric(o) funeral doom, con alcuni feedback residui dello sludge apocalittico dei dischi precedenti e gocce progressive in stile Ahab, in cui il tempo si dilata fino ad inghiottire tutto, e la massa sonora si fa così tanto voluminosa da nascondere la voce umana. Non siamo che briciole destinate a scomparire nell'Universo. Gli Usnea (citando Gene Wolfe, Ursula Le Guin, Carl Sagan, Margaret Atwood, Philip Dick e Frank Herbert) ci mettono di fronte questo concetto con un disco profondo come l'abisso.
[R.T.]
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Usnea - Portals into Futility
(Relapse Records, 2017)

Portals into Futility is a funeral that does not take place in a sacred place. No afterlife, nor gods, to whom entrust the mortal remains. The slow heavy gait of the funeral procession leads to the edge of the abyss. The ashes will be thrown here. In the void. Through the portals from which everything has arrived, where everything is destined to return, inevitably. Usnea face the abyss and cry out their cosmic nihilism with gigantic distortions and cavernous growl, with oppressive atmospheres and excruciating screams, but also with melancholic arpeggios that generate infinite echoes. Five long songs of pure Esoteric funeral doom, with some feedbacks (residuals of the apocalyptic sludge of the previous records) and progressive drops in Ahab style, in which time expands to swallow everything, and the sound mass becomes so much voluminous to hide the human voice. We are nothing but crumbs destined to disappear in the Universe. Usnea (citing Gene Wolfe, Ursula Le Guin, Carl Sagan, Margaret Atwood, Philip Dick and Frank Herbert) put us in front of this concept with an album as deep as the abyss.
[R.T.]

lunedì 14 maggio 2018

Myrkur – Mareridt


Myrkur – Mareridt
(Relapse Records, 2017)

Il secondo episodio della saga Myrkur si apre con la sola voce di Amelie Bruun, sicura attraverso un ambiente ghiacciato, come a voler affrontare a testa alta i suoi nemici. Le tempeste di gelido black metal sono ridotte al minimo (Måneblôt) e sono temperate dal calore vocale della musicista danese la quale, con la complicità di un coro tutto al femminile, fa sì che il Sole primaverile possa sciogliere la neve mostrando inediti paesaggi, quasi celtici (Crown, De Tre Piker), nelle terre ghiacciate del Nord. Il sentiero si allontana sempre più dai fiordi norvegesi e dalla loro fiamma nera, per approdare ad una terra di mezzo in cui le armonizzazioni vocali quasi folk si tingono di atmosfere gotiche. Prendendo ispirazione dai propri incubi, che non la abbandonavano neanche dopo il risveglio, Amelie concepisce un disco che ha molte affinità tematiche con la poetica di un’altra musicista affetta da “paralisi da sonno”, Chelsea Wolfe (le due intrecciano i propri lati oscuri in Funeral). Oltre alla musicista americana, sono altri i compagni di viaggio di Amelie: Aaron Weaver dei Wolves in the Throne Room (alla batteria) e, soprattutto, Randall Dunn, che si occupa della produzione del disco. Quest'ultimo, produttore di alcuni degli album di drone metal ambientale più intensi degli ultimi anni, contribuisce in modo fondamentale a valorizzare il lavoro di Myrkur, rendendolo un punto di passaggio tra antico e moderno. L’utilizzo di strumenti come la nyckelharpa e la mandola contribusice alla creazione di scenari medievali e a farci immergere in un mondo misterioso in cui le leggende varcano i confini della realtà. Un mondo in cui gli incubi varcano i confini della veglia.
[R.T.]
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Myrkur – Mareridt
(Relapse Records, 2017)

The second episode of Myrkur saga opens with Amelie Bruun voice, safe through a frozen environment, as if she wanted to face her enemies head-on. Icy black metal storms are reduced to the minimum (Måneblôt) and they are tempered by the vocal warmth of the Danish musician who, with the complicity of an all-female choir, allows the spring sun to melt the snow showing unknown, almost Celtic (Crown, De Tre Piker), landscapes in the frozen lands of the North. The path is increasingly moving away from Norwegian fjords and their black flame, to arrive at a middle-earth where the almost folk vocal harmonies acquire gothic atmospheres. Taking inspiration from her nightmares, which did not abandon her even after waking up, Amelie conceives an album that has many thematic affinities with the poetics of another musician suffering from "sleep paralysis", Chelsea Wolfe (the two intertwine their dark sides in Funeral). In addition to the American musician, Amelie's other travel companions are: Aaron Weaver of Wolves in the Throne Room (on drums) and, above all, Randall Dunn, who deals with the production of the album. Producer of some of the most intense ambient drone metal albums of recent years, the latter contributes in a fundamental way to enhance Myrkur work, making it a point of transition between ancient and modern. The use of musical instruments such as nyckelharpa and mandola contributes to the creation of medieval sceneries and to immerse us in a mysterious world in which legends cross the boundaries of reality. A world in which nightmares cross the borders of the wakefulness.
[R.T.]

venerdì 11 maggio 2018

Roadburn 2018 - Day 4


Roadburn 2018 - Day 4
[Joy feat. Dr. Space + Big Brave + Spotlights + Vánagandr: Sól án varma + Wrekmeister Harmonies]

Ultimo giorno. Quello in cui si affaccia la sensazione di “luci che si riaccendono, musica che finisce, tutti a casa” . Hai vissuto quattro giorni immerso in un'incredibile atmosfera, ascoltando concerti spesso irripetibili e hai ancora davanti un'intera giornata di musica, ma sai che la magia sta per concludersi. Per ricacciare indietro questo pensiero, urge entrare in un locale e scoprire cosa ci attende oggi.

Iniziamo dall'Het Patronaat con i Wrekmeister Harmonies. Due maestri di cerimonia occulta, più un batterista in prestito (talvolta alla ricerca di una bussola per potersi orientare). Paesaggi sonori desolati e desolanti. Perle di distillate melodie e squarci di rumore. Una strana commistione di etereo e carnale, le cui suggestioni sono amplificate dalle videoproiezioni dapprima allucinate e poi propriamente disturbanti (fra anatomopatologia e tassidermia senza censura alcuna). Una voce profonda che si scava un tunnel in un oceano di rumore, con alcune note di violino e tastiera a fornire spiragli di luce. Come se gli Swans contemplassero i cadaveri da loro smembrati, e riuscissero a commuoversi di fronte a quella vista. Un'esperienza davvero intensa e non ordinaria.

E' poi il momento di un altro evento speciale, creato appositamente per questo Roadburn 2018. Il gotha del black metal islandese - Misþyrming, Naðra, Svartidauði, Wormlust - riunito sotto il moniker Vánagandr per un'opera musicale inedita dal titolo Sól án varma (letteralmente "sole senza radiosità"). Che si tratti della lunga notte dell'inverno nella terra di ghiaccio e fuoco, o di una visione apocalittica e distopica, o della messa in musica di retaggi culturali atavici ed ancora attuali, certo è che il progetto tutto "made in Iceland" ha un'indubbia forza espressiva e riesce a fondere le sue fondamenta black metal in qualcosa di altro, dotato di una visionarietà che trascende i confini del genere di partenza per spaziare in territori a tratti cosmici. Per chi ricorda le prime edizioni del festival, improntate su stoner, doom ed heavy psych, suonerà certamente assurdo un concerto con suoni così compressi e futuribili, con una tempesta solare di tremolo picking a tutta velocità alternata a dilatazioni spaziali e voci che riverberano effettatissime, eppure è proprio in questa continua ricerca di una musica pesante in grado di spingersi al di là dei territori conosciuti che il Roadburn mantiene la sua identità ed unicità. Come per i Waste of Space Orchestra, non resta che sperare nella trasposizione su disco di questa opera prima.

Lasciati i vasti spazi desertici del remoto Nord, e ignorati gli invitanti richiami che giungono dallo skate park adiacente all’Hall of Fame (dove gira voce che alcune band di San Diego stiano regalando show a sorpresa) è tempo di scendere nel cuore di una metropoli brulicante con i newyorkesi Spotlights. Per chi come noi è cresciuto con camicie di flanella e Doc Martens, è come tornare a casa. I riff possenti e carichi di groove odorano di King Buzzo, e le aperture sognanti e malinconiche sono ricordi di vecchi sogni shoegaze, come se fossero stati rielaborati da Aaron Turner. Rumorosi e pesanti, ma al tempo stesso melodici ed eterei, si dimostrano una scoperta davvero interessante, la cui unica pecca è quella di non avere un tastierista che suoni dal vivo i bei passaggi imprigionati nei samples.

Dall'alto della balconata della Green Room ci spostiamo ad un altro piano sopraelevato, quello dell’Het Patronaat. Qui ci conquistiamo un posto a sedere (necessità impellente dopo quattro giorni di concerti ininterrotti) per ascoltare i Big Brave. La muraglia di suono generata dal trio ha un consistenza fisica e palpabile, e sembra di vederla elevarsi sempre di più, mattone dopo mattone, riff dopo riff, feedback dopo feedback, drone dopo drone, fino a riempire tutto lo spazio dell’ex chiesa. Una band di contrasti, nella quale una fragile e allucinata voce femminile si arrampica su un muro di distorsione, producendo un flusso sonoro che stordisce tanto con le sue dilatazioni quanto con le sue bordate. Osserviamo il trio attraverso un intreccio di cavi che calano dal soffitto, perfetta punto d'osservazione per questa musica claustrofobica.

In una giornata densa di atmosfere oscure e torte, è giunto infine il momento di volare lontano con sonorità luminose e psichedeliche. Si torna nel minuscolo Cul de Sac, per chiudere questo Roadburn con l'atmosfera radiosa di San Diego. Il blues psichedelico dei Joy implementato dai suoni spaziali di Dr. Space: un Mago Merlino a Honolulu che ti riempie di gioia solo a vederlo. Un'ora di incredibili improvvisazioni, che dilatano il ristretto spazio in cui sudiamo accalcati l'uno sull'altro e ci trasportano in un'altra dimensione, fatta di altre vibrazioni e percezioni. Una spiaggia hawaiiana infuocata da esplosioni vulcaniche, praticamente! Il finale più bello che questa giornata e questo Roadburn 2018 potessero avere! “See You next year, spaceheads!”

[Appendice]: visto che questa è la recensione dell'ultimo giorno, è tempo di bilanci sul Festival anche oltre l'aspetto musicale (che ci ha ampiamente soddisfatto!).

Pollice su per i nuovi locali. Sia il Koepelhal che l'Hall of Fame si sono rivelate due azzeccate locations, e hanno anche permesso di superare i problemi di code e soldout che si erano verificati negli anni scorsi (per quel che ne sappiamo, quest'anno è successo soltanto con i due show dei Bell Witch). Pollice su anche per la nuova area merchandise, molto più spaziosa e "completa", così come per l'area dedicata all'esposizione di poster e serigrafie. Ottima idea, inoltre, quella di utilizzare uno skate park per ricreare l’atmosfera di San Diego (dato che molti musicisti di quella scena sono skater professionisti).

Osservazioni costruttive. La nuova area merchandise, per quanto funzionale, necessiterebbe di qualche addetto in più, dedicato a settori più piccoli, così da velocizzare le operazioni (ci guadagnano tutti, sia chi compra, sia chi vende). Ottima la possibilità di lasciare i propri acquisti in custodia a costi irrisori, ma vale la pena di prolungare l'apertura del deposito merch fino almeno ad una mezzora dopo la fine dell'ultimo concerto. Prendendo spunto da altri festival, infine, perché non passare ai bicchieri di plastica rigidi (quelli da riportare al bancone per il reso) così da evitare di ridurre lo 013 e le altre venues a distese di plastica appiccicosa di alcool? Oppure, perché non organizzare un servizio di pulizia delle sale tra un concerto e l’altro?

Il Roadburn è un festival incredibile ed in continua crescita ed evoluzione. Siamo certi che anche il prossimo anno ci sorprenderà!
[E.R. + R.T.]

 

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Roadburn 2018 - Day 4
[Joy feat. Dr. Space + Big Brave + Spotlights + Vánagandr: Sól án varma + Wrekmeister Harmonies]

Last day. The one you already start thinking about "lights on, no more music, everyone at home". You have been spending four days immersed in an incredible atmosphere, listening to often unrepeatable concerts and you still have a whole day of music ahead of you, but you know that the magic is about to end. To push back this thought, let's enter one of the venues and find out what awaits us today.

Let's start from the Het Patronaat with Wrekmeister Harmonies. Two masters of occult ceremony, plus a drummer on loan (sometimes looking for a compass to orientate himself). Desolate and desolating sound landscapes. Pearls of distilled melodies and lacerations of noise. A strange mixture of ethereal and carnal, whose suggestions are amplified by videoprojections - initially hallucinatory and then disturbing (between anatomopathology and taxidermy without any censorship). A deep voice that digs a tunnel into an ocean of noise, with some notes of violin and keyboard to provide glimmers of light. As if Swans contemplated the bodies they had dismembered, able to be moved by that sight. A truly intense non-ordinary experience.

It is then time for another special event, specifically created for this Roadburn 2018. The gotha of Icelandic black metal - Misþyrming, Naðra, Svartidauði, Wormlust - gathered under the moniker Vánagandr for an unreleased musical work entitled Sól án Varma (literally "sun without radiance"). Whether it's the long night of winter in the land of ice and fire, or an apocalyptic and dystopian vision, or  atavistic and still current cultural heritage, it is certain that the "made in Iceland" project has got an undoubted expressive strenght and it manages to merge its black metal foundations into something else, endowed with a visionary nature that transcends the boundaries of the starting genre to wander in sometimes cosmic territories. For those who remember the first editions of the festival - based on stoner, doom and heavy psych - it will certainly sound absurd to face a concert with so compressed and futuristic sounds, with a solar storm of tremolo picking at full speed alternating with spatial dilations and reverberating ultra-distorted voices, yet it is precisely in this continuous search for heavy music going beyond known territories that Roadburn maintains its identity and uniqueness. As for Waste of Space Orchestra, we long for the recordings of this first work.

Left the vast desert spaces of the remote North, and ignored the inviting calls coming from the skate park adjacent to the Hall of Fame (there are rumors of some San Diego bands performing surprise shows) it's time to get into the heart of a metropolis teeming with New Yorkers Spotlights. For those like us who grew up with flannel shirts and Doc Martens, it's like coming home. Powerful and groovy riffs smell like King Buzzo, and dreamy melancholic openings are memories of old shoegaze dreams, as if they were rearranged by Aaron Turner. Noisy and heavy, but at the same time melodic and ethereal, they are a really interesting discovery, whose only flaw is that of not having a real keyboard on stage for those beautiful passages imprisoned in samples.

From the top of the Green Room balcony we move to another raised floor, that of the Het Patronaat. Here we win a seat (impelling necessity after four days of uninterrupted concerts) to listen to Big Brave. The wall of sound generated by the trio has got a physical and palpable consistency, and it seems to see it rise more and more, brick by brick, riff after riff, feedback after feedback, drone after drone, to fill up the whole space of the former church. A band of contrasts, in which a fragile hallucinated female voice climbs on a wall of distortion, producing a sound stream that stuns so much with its dilations as with its attacks. We observe the trio through a network of cables descending from the ceiling, a perfect point of view for this claustrophobic music.

In a day full of dark crooked atmospheres, the time has finally come to fly far away with bright psychedelic sounds. We return to the tiny Cul de Sac, to close this Roadburn with the radiant atmosphere of San Diego. The psychedelic blues of Joy implemented by the space sounds of Dr. Space: a Merlin Wizard in Honolulu that fills you with happiness at first sight. An hour of incredible improvisations which dilate the narrow space in which we sweat huddled on each other and transport us to another dimension, made of other vibrations and perceptions. A Hawaiian beach burning with volcanic explosions! The most beautiful end that this day and this Roadburn 2018 could have! "See You next year, spaceheads!"

[Appendix]: since this is the review of the last day, it is time to "make an analysis" of the Festival even beyond the musical aspect (which has amply satisfied us!).

Thumb up for the new premises. Both the Koepelhal and the Hall of Fame proved to be two well-chosen locations, and they also allowed to overcome the problems of queues and soldouts that had occurred in the last years (as far as we know, this year it only happened with the two Bell Witch shows). Thumb up also for the new merchandise area, much more spacious and "complete", as well as for the area dedicated to the display of posters and screen prints. Furthermore, it is a good idea to use a skate park to recreate the atmosphere of San Diego (especially if you think that many musicians of that scene are professional skaters).

Constructive observations. The new merch area, although functional, would need some additional staff, dedicated to smaller sectors, so as to speed up operations (we all earn from this: both those who buy, and those who sell). Excellent the opportunity to leave our purchases in custody at negligible costs, but it is worthwhile to prolong the opening of the merch deposit until at least half an hour after the end of the last concert. Taking a cue from other festivals, finally, why not go to the rigid plastic glasses (those to bring back to the counter for the return) so as to avoid reducing the 013 and the other venues to expanses of plastic sticky with alcohol? Or why not organize a room cleaning service between one concert and another?

Roadburn is an incredible festival in continuous growth and evolution. We are sure that also next year it will surprise us once again!
[E.R.+R.T.]

 

 




martedì 8 maggio 2018

Roadburn 2018 - Day 3


Roadburn 2018 - Day 3

[Earthless & Kikagaku Moyo + Godspeed You! Black Emperor + Boris with Stephen O'Malley + Damo Suzuki & Minami Deutsch + Hugsjá + Bell Witch]

Anche oggi fa un caldo anomalo per la stagione. Ma alle 14:00 di questa assolata giornata c'è chi è capace di gettarti all'improvviso nel più tetro e buio autunno. Bell Witch al Koepelhal, per l'esecuzione integrale di Mirror Reaper. Un'ora e mezza di funeral doom apocalittico e lentissimo che annichilisce il numerosissimo pubblico (e a fine concerto scopriamo anche che in molti non ce l'hanno fatta ad entrare...sold out in apertura!). Il duo americano ci stordisce con i suoi quasi statici, ma evocativi, fraseggi di basso e batteria. Una ventata di "leggerezza" la portano la comparsa di Erik Moggridge (Aerial Ruin) e la sua voce fragile e melanconica. Atmosfere che richiamano grandi spazi desolati e solitari, nei quali è splendido perdersi e sentirsi minuscoli. Un concerto da sala di teatro, da gustare seduti su comode poltroncine, e che invece ci sentiamo in piedi, spossati dal caldo e dalla pesantezza di questa musica obnubilante.

Un po' di luce e di aria, per riprendere contatto con la vita e spostarci allo 013 dove gli Hugsjá stanno eseguendo tutta la loro omonima opera. E' come essere trasportati da una nave vichinga in un luogo ed in un tempo lontani, totalmente distanti dal presente in cui viviamo. Il lavoro di Ivar Bjørnson (Enslaved) e Einar Selvik (Wardruna) è frutto di una ricerca sulla Norvegia, la sua storia e la sua cultura, ed è la prima volta che viene proposto al di fuori dei confini della madre patria. Attraverso l'uso di strumenti musicali antichi e attraverso l'approfondimento di tradizioni che possono essere definite ancestrali, Hugsjá è un'opera acustica che colpisce per la sua potenza e la sua capacità evocativa e narratrice. Le voci, spesso anche corali, immergono l'ascoltatore in qualcosa di antico che pure parla ancora a chi gli tende l'orecchio.

Nella Green Room, poi, ci aspetta un’astronave guidata da un equipaggio nipponico. A trasportarci in un'altra dimensione sono i Minami Deutsch eccezionalmente capitanati da Damo Suzuki, per una jam liquida a scorrimento continuo. Il veterano guru del krautrock è una vera e propria forza della natura e - nonostante l'età e la lunga carriera artistica - ha ancora una freschezza ed una giovinezza difficilmente eguagliabili. Che si lanci in sperimentazioni vocali, o segua percorsi più tradizionali, la sua voce crea immagini che si innestano alla perfezione sulle tracce sonore create dai bravissimi Minami Deutsch, degni eredi nipponici di Can e Neu! Un'esperienza davvero imperdibile che esalta tanto nei passaggi più morbidi e avvolgenti, quanto in quelli più ossessivi e labirintici.

Dalla Green Room al Main Stage il passo è davvero breve. Quello che ci aspetta è un'altra collaborazione di altissimo livello e che riesce a superare le nostre alte aspettative. I Boris, con Stephen O'Malley, per l'esecuzione di tutto Absolutego. Il muro di amplificatori sul palco è davvero imponente, e per metà è appannaggio di O'Malley. Ci aspettiamo di essere travolti da droni impenetrabili, stordenti ed assordanti. In realtà quello che ci attende è un viaggio cosmico. Dal vivo, l'album di esordio del trio di Tokyo acquista un'atmosfera psichedelica davvero intensa, trasformandosi in una sorta di Zeit (Tangerine Dream) con le chitarre al posto dei sintetizzatori. A disorientare il pubblico non sono soltanto le saturazioni dei suoni e la stratificazione delle distorsioni, bensì anche le onde dissonanti e le armonie rarefatte che emergono possenti dal magma sonoro. Quando Atsuo fa scomparire il mastodontico flusso sonico dentro due piatti in collisione è come se una galassia fosse implosa davanti ai nostri occhi e dentro ai nostri orecchi. Estasi pura. Di gran lunga il miglior concerto dei Boris fra i tre sentiti nell'ultimo anno e mezzo.

Il fascino dell'analogico e il potere evocativo della colonna sonora sono ciò che contraddistingue i Godspeed You! Black Emperor e il loro lungo set. La band canadese è un vero e proprio ensemble e sta sul palco come un'orchestra. I suoni sono calibrati e armonizzati a perfezione. Ogni brano è una suite di musica ed emozioni. Ad accentuare ed accrescere queste sensazioni, le proiezioni tutte analogiche e montate a mano con grande perizia e gusto (con tanto di pellicola avvicinata al una lampadina incandescente per essere deformata). Quasi come assistere ad un film muto il cui commento sonoro è eseguito dal vivo da una piccola orchestrina, ma a ruoli invertiti. Un concerto di grande suggestione in cui la band canadese fornisce la propria personale interpretazione della musica cosmica tedesca dei '70, riletta come colonna sonora di un film immaginario che, nel climax finale, ci fa uscire dal cinema con le lacrime agli occhi.

Uno speciale incontro fra Oriente ed Occidente conclude questa giornata contraddistinta da un alto livello di psichedelia cosmica. L’ultima collaborazione della giornata è una super jam di Earthless e Kikagaku Moyo. Sostanzialmente due mega improvvisazioni di mezz'ora l'una, in cui i membri delle rispettive formazioni si inseriscono quasi a canoni l'uno sull'altro, innescando un dialogo a molte voci, che segue percorsi contorti e onirici, per poi convergere in un'onda d'urto sonora di incredibile impatto. Splendidamente armonico ed evocativo l'intreccio tra la meditazione orientale (morbida, fluida e guidata dal sitar), e l'espansione della coscienza occidentale (elettrica, viscerale ed esplosiva). Il flusso musicale creato dagli otto musicisti sembra vivere di vita propria e pare inarrestabile. Ma così come è apparso all'improvviso, altrettanto improvvisamente giunge al suo termine e ci lascia come sospesi e desiderosi di intraprendere un nuovo viaggio.
[E.R.+R.T.]

 

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Roadburn 2018 - Day 3

[Earthless & Kikagaku Moyo + Godspeed You! Black Emperor + Boris with Stephen O'Malley + Damo Suzuki & Minami Deutsch + Hugsjá + Bell Witch]

Even today it is abnormal warm for the season. But at 2:00 pm of this sunny day there are those who are able to throw you suddenly into the darkest gloomy autumn. Bell Witch at the Koepelhal, for the performance of the whole Mirror Reaper. An hour and a half of apocalyptic and very slow funeral doom that annihilates the numerous audience (and at the end of the concert we also discover that many did not manage to attend their show ... sold out at the opening!). The American duo stuns us with his almost static, yet evocative, phrasings of bass and drums. A breath of "lightness" is brought thanks to the appearance of Erik Moggridge (Aerial Ruin) and his fragile and melancholic voice. Atmospheres that recall large desolate and solitary spaces, in which it is wonderful to get lost and feel tiny. A theater hall concert, to be enjoyed sitting on comfortable armchairs, that - instead - we attend standing, exhausted by the heat and the heaviness of this obnubilating music.

A little bit of sunlight and air, to regain contact with life and move to 013 where Hugsjá are performing their whole work. It is like being transported by a Viking ship in a distant place and time, far from the present in which we move. Ivar Bjørnson (Enslaved) and Einar Selvik (Wardruna) work is the result of a research on Norway, its history and culture, and it is the first time that it has been proposed outside the borders of their mother country. Through the use of ancient musical instruments and through the deepening of traditions that can be described as ancestral, Hugsjá is an acoustic work that is striking for its power and its evocative narrative capacity. Often choral, voices immerse the listener in something ancient that still speaks to those who stretch their ears towards them.

In the Green Room, then, a spaceship headed by a Japanese crew awaits us. Transporting us to another dimension are Minami Deutsch, exceptionally led by Damo Suzuki, for a continuous flowing liquid jam. The veteran guru of krautrock is a true force of nature and - despite his age and long artistic career - he still has got a freshness and a youth beyond compare. Whether he launches himself into vocal experiments, or he follows more traditional paths, his voice creates images that are perfectly grafted to on the sound tracks created by the talented Minami Deutsch, worthy Japanese heirs of Can and Neu! A truly unmissable experience that exalts so much in the softer and more enveloping passages, as well as in the most obsessive and labyrinthine ones.

It is really a short step from the Green Room to the Main Stage. What awaits us is another collaboration of the highest level and that manages to exceed our high expectations. Boris, with Stephen O'Malley, for the performance of the whole Absolutego. The wall of amplifiers on stage is really impressive, and half of it is O'Malley prerogative. We expect to be overwhelmed by impenetrable stunning deafening drones. Actually what awaits us is a cosmic journey. Live, Tokyo trio's debut album acquires a very intense psychedelic atmosphere, turning into a sort of Zeit (Tangerine Dream) with guitars instead of synthesizers. Not only saturation of sounds and stratification of distortions, but also dissonant waves and rarefied harmonies emerging powerful from the sound magma bewilder the audience. When Atsuo makes the mammoth sound flux disappear within two cymbals in collision, it is as if a galaxy imploded before our eyes and inside our ears. Pure ecstasy. By far Boris best concert among the three we attended in the last year and a half.

The charm of the analog and the evocative power of soundtrack are what distinguishes Godspeed You! Black Emperor and their long set. The Canadian band is a real ensemble, standing on stage like an orchestra. Sounds are calibrated and harmonized to perfection. Each song is a suite of music and emotions. To accentuate and increase these feelings, videoprojections are all analog and hand-assembled with great skill and taste (sometimes the film is placed near to a glowing light bulb to be deformed). Almost like watching a silent film whose sound commentary is performed live by a small orchestra, but with reversed roles. A really suggestive concert in which the Canadian band provides its own personal interpretation of 70s German cosmic music, read as a soundtrack to an imaginary film that, in the final climax, makes us leave the cinema with tears in our eyes.

A special meeting between East and West concludes this day marked by a high level of cosmic psychedelia. The last collaboration of the day is a super jam by Earthless and Kikagaku Moyo. Basically two mega improvisations of half an hour each, in which the members of the respective bands overlap each other almost as in a canon, triggering a dialogue with many voices, which follows twisted dreamlike paths and then converges in a sonic shock wave of incredible impact. Beautifully harmonious and evocative is the intertwining of oriental meditation (soft, fluid and guided by the sitar) and the expansion of western consciousness (electric, visceral and explosive). The musical flow created by the eight musicians seems to live on its own life and it seems unstoppable. But just as suddenly it appeared, just as suddenly it comes to its end and leaves us as suspended and eager to undertake a new journey.
[E.R.+R.T.]
 

 


 

giovedì 3 maggio 2018

Roadburn 2018 - Day 2

 

Roadburn 2018 - Day 2
[Grave Pleasures + Godflesh + Converge + Sacri Monti + Comet Control + Motorpsycho + Mutoid Man]

Siamo ancora in pieno anticipo d’estate e inauguriamo la nostra seconda giornata di festival nella nuova area di questo Roadburn 2018. Il complesso del Koepelhal (ex industria delle ferrovie) ospita il secondo palco del festival per capienza, oltre all’area dedicata al merchandise e alle esposizioni artistiche: una novità pensata appositamente per evitare i sold out e le file chilometriche che si erano verificate in passato. Struttura imponente dal sapore post industriale che perfettamente si adatta all’atmosfera del festival, ed è solo a pochi metri dal suo cuore storico.

Qui i Mutoid Man infuocano letteralmente il palco. Terza volta che li vediamo dal vivo in poco più di 2 anni e di gran lunga la migliore. Merito certamente anche del bellissimo palco, degli ottimi suoni e dell’atmosfera esaltante del Roadburn, ma soprattutto della innegabile maturazione di questo trio che, dopo aver ripulito i suoi riff dalla sovrabbondanza di effetti (principalmente wah wah), suona molto più compatto e preciso, senza per questo aver perso in frenesia e ironia, parte irrinunciabile del loro stile e dei loro concerti (i siparietti demenziali ci sono ancora, non preoccupatevi!). Uno show che riesce a divertire ed esaltare anche i doomsters più depressi e i blacksters più misantropi. Gli accenni a classici del passato come 21st Century Schizoid Man o Communication Breakdown, incastonati nelle incandescenti cavalcate della band, oltre a quello che ormai è un “loro” cavallo di battaglia a tutti gli effetti (Don’t Let Me Be Misunderstood), non fanno che arricchire una scaletta a dir poco straordinaria. Un inizio di giornata col botto!

Volata allo 013 per sentire almeno un'oretta del lungo set dei Motorpsycho. Arriviamo che la band è concentrata sulle canzoni dell'ultimo The Tower. L'atmosfera è carica di psichedelia e vibrazioni rock positive. Pur arrivando a partita iniziata riusciamo subito a calarci nella loro magica atmosfera e nel loro incredibile rincorrersi di riffs e fraseggi, in cui è facile perdersi per poi ritrovarsi sempre al centro della tana del Bianconiglio.

Abbandoniamo la vastità dello 013 per infilarci nel minuscolo Cul de Sac. Mangiamo il lato del fungo che ci rende piccoli piccoli e ci ritagliamo il nostro angolo nel sudatissimo e stivatissimo locale. I canadesi Comet Control ci prendono per mano e ci conducono in un viaggio al centro del (loro) labirinto. Sono coinvolgenti e psichedelici. Con un batterista potente e che, pur non sempre precisissimo, ha il suo punto di forza nella capacità di incalzare e trascinare l'ascoltatore. Il potere estraniante della band ci fa sopravvivere al caldo soffocante.

Ci spostiamo nella nuova area del festival, questa volta all'Hall of Fame, avendo anche il tempo di svagarci un po' nella sua area relax. Non vogliamo abbandonare la psichedelia e vogliamo tornate a San Diego. I Sacri Monti ci aspettano. Ma prima dell'inizio del loro concerto ci fermiamo ad osservare le evoluzioni di Figueroa (chitarrista degli Harsh Toke) con lo skate, in uno skate park adiacente l'Hall of Fame che contribuisce a ricreare l'atmosfera di San Diego in terra europea. Entriamo poi nel locale e veniamo travolti da un carico di heavy psych e saturazioni a vari livelli della rumorosissima jam dei Sacri Monti. La loro lisergia non è morbida e onirica, bensì piuttosto obnubilante e stordente. La tastiera crea un muro di suono in continuo climax su cui si inseriscono gli assoli delle chitarre. L'incedere è compatto e massiccio, e travolge l'ascoltatore come una tempesta di sabbia.

E' tempo di cambiare tutto. E' tempo di tornare davanti al Main Stage, a sbattere il muso sui Converge. Oggi tutto You Fail Me. Rosso sangue ovunque. Sembra impossibile, ma oggi la band di Boston supera la se stessa di ieri. Le loro bordate sono ancora più devastanti. I suoni ancor più mastodontici. La voce di Bannon ancor più graffiante e penetrante. Non c'è una nota fuori posto, non c'è il minimo spazio per retrocedere. E' un'esplosione di furia catartica. Eagles Become Vultures si dimostra uno dei momenti più esaltanti dell'intero festival, così come la splendida In Her Shadow dedicata a Caleb Scofield (bassista dei Cave In morto poche settimane prima). A mettere la ciliegina sulla torta un bis speciale: Wolverine Blues degli Entombed con special guests a sorpresa Thomas Lindberg (At the Gates) e Kevin Baker (All Pigs must die). Gran finale ad effetto per uno dei migliori concerti di questo Roadburn 2018.

Riprendiamo un po' di fiato aggirandoci per il Weirdo Canyon, quartier generale del festival. Ma è ben presto l'ora di tornare a prendere posizione all'interno dello 013: ci aspettano i Godflesh e l'intero Selfless (prima assoluta per la sua esecuzione integrale). L'umanità dei musicisti è nascosta in una nube densissima di distorsioni e basi industriali, e appare solo attraverso la voce onirica di Justin Broadrick. Concerto mastodontico e pachidermico. Suoni pesanti e da un'altra dimensione, per un disco che non sente assolutamente i suoi 24 anni, e che ha ancora un'incredibile forza annichilente. Il brani del bis, tra cui Merciless tratta dall'omonimo Ep del '94, fanno sparire qualsiasi luce residua.

Per chiudere questa seconda multiforme giornata, qualcosa di completamente diverso. E' il momento di ballare sulle tombe delle nostre esistenze guidati dai Grave Pleasures e dal loro riuscito e accattivante mix di death rock, post punk e rock'n'roll. Capitanata da un istrionico e carismatico Mat McNerney (Hexvessel) alla voce e da un altrettanto trascinante Juho Vanhanen (Oranssi Pazuzu) alla chitarra, la band finlandese cattura con le sue melodie che ti entrano subito in testa facendosi largo tra gli stridori noise delle chitarre e muovendosi continuamente su una base ritmica trascinante. Una musica che si impossessa del tuo corpo impedendoti di rimanere fermo. Un finale di giornata davvero carico di energia dopo 11 intense ore di musica! 
[E.R.+R.T.]

 

 

  

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Roadburn 2018 - Day 2
[Grave Pleasures + Godflesh + Converge + Sacri Monti + Comet Control + Motorpsycho + Mutoid Man]

We are still in this strange anticipation of summer and we start our second day of festival in the new area of this Roadburn 2018. The Koepelhal complex (former railway industry) hosts the second stage of the festival for capacity, in addition to the area dedicated to merchandise and art exhibitions: a novelty designed specifically to avoid sold out and endless queues of the past. Impressive structure with a post-industrial flavour that perfectly fits into the atmosphere of the festival, and it is only a few meters from its historic heart.

Here Mutoid Man literally fire up the stage. Third time we see them live in just over 2 years and by far the best. Certainly thanks to the beautiful stage, the excellent sounds and the exciting atmosphere of Roadburn, but above all thanks to the undeniable progress of this trio that, after cleaning up its riffs from the overabundance of effects (mainly wah wah), sounds much more compact and precise, without having lost in frenzy and irony, indispensable parts of their style and concerts (funny crazy gags are still there, don't worry!). A show able to amuse and exalt even the most depressed doomsters and the most misanthropic blacksters. Hints to classics of the past such as 21st Century Schizoid Man or Communication Breakdown, nestled in the band's incandescent rides, in addition to what is now "their" battle horse in all respects (Don't Let Me Be Misunderstood), enrich a setlist to say the least extraordinary. What an incredible start of the day!

In a flash to 013 to listen at least to an hour of the long set of Motorpsycho. We arrive that the band is focused on the songs of their latest The Tower. The atmosphere is loaded with psychedelia and positive rock vibrations. Although arriving with game started we can immediately get into their magical atmosphere and their incredible succession of riffs and phrasings, in which it is easy to get lost and then always find ourselves at the center of the White Rabbit's lair.

We abandon the vastness of 013 to slip into the tiny Cul de Sac. We eat the side of the mushroom that makes us small and we cut out our corner in this extremely sweaty and full packed venue. Canadians Comet Control take us by the hand and lead us on a journey to the center of (their) maze. They are involving and psychedelic. With a powerful drummer who, although not always that precise, has got his point in the ability to press and drag the listener. The band's estranging power makes us survive the suffocating heat.

We move into the new area of the festival, this time to the Hall of Fame, having also time to fiddle around its "relaxation area". We don't want to abandon psychedelia and we want to go back to San Diego. Sacri Monti are waiting for us. But before the start of their concert we stop to observe Figueroa (Harsh Toke guitarist) evolutions with the skate, in the skate park adjacent to Hall of Fame contributing to recreate the atmosphere of San Diego on European soil. Then we enter the concert venue and we are overwhelmed by a load of heavy psych and saturations at various levels of the Sacri Monti super-noisy jam. Their psychedelia is not soft and dreamy, yet rather obscure and stunning. Keyboard creates a wall of sound in continuous climax on which guitars solos are inserted. The gait is compact and massive, and it overwhelms the listener like a sandstorm.

It's time to change everything. It's time to get back to the Main Stage, bumping into Converge. Today the whole You Fail Me. Blood red everywhere. It seems impossible, but today the band from Boston exceeds yesterday itself. Their attacks are even more devastating. Sounds even more mammoth. Bannon voice even more sharp and penetrating. Not a key out of place, not the slightest space to move back. It is an explosion of cathartic fury. Eagles Become Vultures proves to be one of the most exciting moments of the entire festival, as well as the amazing In Her Shadow dedicated to Caleb Scofield (Cave In bass player, died a few weeks earlier). To put the icing on the cake surprise special guests Thomas Lindberg (At the Gates) and Kevin Baker (All Pigs must die) for Wolverine Blues. What a great enchore and what a final for one of the best gigs of this Roadburn 2018!

Let's take a little breath and wander around the Weirdo Canyon, headquarters of the festival. But it is soon time to return to 013: Godflesh and the whole Selfless are waiting for us (first time for its complete execution). The humanity of the musicians is hidden in a cloud full of distortions and industrial bases, and it appears only through Justin Broadrick dreamlike voice. Mastodontic and pachydermic concert. Heavy sounds and from another dimension, for an album that absolutely does not feel its 24 years, and that it still has got an incredible annihilating force. The encores, including Merciless from the eponymous Ep, make any residual light disappear.

To conclude this second multiform day, something completely different. It's time to dance on the graves of our lives led by Grave Pleasures and their successful and captivating mix of death rock, post punk and rock'n'roll. Led by a histrionic and charismatic Mat McNerney (Hexvessel) on the microphone and by an equally enthralling Juho Vanhanen (Oranssi Pazuzu) on the guitar, the Finnish band fascinates with its melodies that come straight into your head making their way through the noisy screechings of guitars and moving continuously on a driving rhythmic base. A music that takes possession of your body preventing you from staying still. A really dynamic end of the day after 11 intense hours of music!
[E.R.+R.T.]