sabato 30 gennaio 2016

Giöbia + Satori Junk + Rinunci a Satana? – 16.01.2016 – Lo-Fi (Milano)


Giöbia + Satori Junk + Rinunci a Satana? – 16.01.2016 – Lo-Fi (Milano)

Con l’eccezione della parentesi dei Satori Junk, due sabato fa il Lo-Fi ha rimesso le lancette del tempo indietro di buoni 40-50 anni, trasportando i presenti alla serata in una bolla - soprattutto - psichedelica sospesa fra la fine dei 60s e gli inizi dei 70s. Grazie alle band, ma anche grazie agli interludi del djset.

Chitarra, batteria e nulla più, i Rinunci a Satana? ci trascinano subito in un altro tempo ed anche in un altro luogo. Non siamo più a Milano in una fredda sera di metà gennaio subito fuori dalla stazione ferroviaria di Milano Rogoredo: siamo al caldo degli States, fra una carovana in corsa per l’oro, un rodeo ed un saloon…ed anche un po’ lungo la Route 66, un pò alla Easy Rider maniera. Fra riff di chitarra di hendrixiana influenza e trascinanti ritmi di batteria, i Rinunci a Satana? snocciolano 40 minuti di hard rock di settantiana memoria tutto sommato fluidi, nonostante la forma mosaico di molti dei loro brani. La vena ironica del nome si riverbera anche sulla loro interazione col pubblico, e questo completa e rende perfetto il loro concerto. La bella scoperta della serata!

Tocca poi ai Satori Junk. Figli degli Electric Wizard da parte di padre e di madre, la giovane band milanese si presenta con un suono bello compatto e groovoso, prettamente stoner-doom, e canzoni dai riff trascinanti. I brani si collocano perfettamente nel filone dal quale nascono, sicuramente senza la pretesa di innovare il genere, ma con la capacità di creare un bel live, grazie alla solidità della parte strumentale e all’impatto sonoro davvero coinvolgente. Unico appunto personale: la formazione strumentale a tre sarebbe andata più che bene. Il cantante aggiunge poco alla struttura delle canzoni, con linee vocali e voce che non impreziosiscono le composizioni della band, così come nulla aggiungono i passaggi alla tastiera proposti di tanto in tanto. In più l’attitudine – ironica?! – del cantante appesantisce un bel live che non ha bisogno di “scenette” per conquistare il pubblico.

Infine la band per cui ho macinato i classici 300 km di autostrada: i Giöbia. Avvolti nel fumo nebbioso che cala dal palco, con poche luci soffuse, storditi dall’onda sonora liquida e magmatica che scivola giù dagli ampli e dalle casse, si è definitivamente sospesi nel tempo e nello spazio. Perse le classiche coordinate, ci si può solo lasciar trasportare dai fiumi di flanger e delay, immergendosi in laghi fluttuanti di organo e synth, ipnotizzati dal ritmo imposto dal perfetto connubio di batteria e basso – ed il basso di Paolo Detrij Basurto merita davvero una menzione speciale, per quanto è impeccabile nei riffs, nonché perfetto e calibrato nei suoni che purtroppo nel complesso non sono proprio al top e tendono ad impastare le parti dei singoli strumenti in alcuni passaggi, pur senza turbare il godimento del concerto. Chicca della setlist, Silver Machine degli Hawkwind: omaggiando Lemmy e una delle sue grandi band.

Una serata come questa ti fa volare alto: non solo perché si tratta di space rock e psichedelia, ma anche perché ti mette davanti ad una realtà musicale vitale e pulsante, con molto da dire, e molti venuti per ascoltare. Dopo la serata romana di settembre scorso al Traffic, questa del Lo-Fi è l’altra serata tutta italiana – per la precisione: tutta milanese! – che spero di incontrare sempre più spesso.
[E.R.] 
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Giöbia + Satori Junk + Rinunci a Satana? – 01.16.2016 – Lo-Fi (Milano)

With the only exception of Satori Junk set, two Saturdays ago Lo-Fi went back in time of 40-50 years, bringing the audience into a – mostly – psychedelic bubble suspended upon the late 60s and the early 70s. This thanks to the bands, but also through the dj set interludes.

Guitar, drums and nothing else, Rinunci a Satana? immediately drag the audience into another time and into another place. It is no more a cold mid-January night right next to Rogoredo Station railways in Milan: the setting is that of the hot, dry areas of the States, amongst a caravan during the gold rush, a rodeo and a noisy saloon… and it is even the Route 66, and the atmospheres of Easy Rider. With their Hendrix-influenced guitar riffs and rousing drum rhythms, Rinunci a Satana? play 40 minutes of seventish hard rock, which sound more or less fluid despite the mosaic-like structure of the songs. The touch of irony of their name reverberates even in their interaction with the audience, and this makes their show perfect. They are the nice discovery of this evening!

Then Satori Junk. Sons of Electric Wizard on both father-side and mother-side, in pure stoner-doom style the young band from Milano has got a solid, groovy sound and songs with enthralling riffs. Their songs perfectly fit into the genre, without innovative attitude, but with the ability of making a great live performance, thanks to the quality of the instrumental part and the engaging sound impact. Just one personal note: a three members instrumental band would have been even better. The singer does not add anything really significant to the songs, his voice and his vocal lines do not enrich their music. The same can be said for the rare keyboards parts. Furthermore the – ironic?! – attitude of the singer makes a bit annoying and heavier a really good live performance which has got no need of “skits” to catch the attention of the listeners.

In the end the band that made me drive the classical 300 km: Giöbia. Shrouded in the foggy smoke falling off the stage, with few dim lights, stunned by the liquid, magmatic sonic wave sliding down from amps and speakers, you can find yourself definitely suspended in time and space. Lost the classical, well-known coordinates, you can only let yourself go with the flow of rivers of flanger and delay, submerging in floating lakes of organ and synth, hypnotized by the rhythm imposed by the perfect couple of drums and bass guitar – and Paolo Detrij Basurto bass really deserves a special mention, not only for the beauty of riffs, but also for the perfection and calibration of sounds, which unfortunately in the complex are not so great and tend to melt together the single parts of the different instruments – anyway without disturbing the enjoyment of the concert in its entirety. Cherry on the pie of the set list, Silver Machine by Hawkwind: tribute to Lemmy and one of his great bands.

A night like this makes you fly high: not only because it is space rock and psychedelia, but also because it shows a vital musical scene, with a lot of things to say and a lot of people come to listen to it. After the one of last September at the Traffic in Rome, this is another of those Italian – more precisely, “made in Milan” – night I want to find more and more often.
[E.R.]



giovedì 28 gennaio 2016

Hawkwind - Space Ritual



Hawkwind – Space Ritual
(United Artists Records, 1973)

Il rituale psichedelico necessita di essere vissuto, non semplicemente ascoltato. E’ un’esperienza che deve penetrare nel corpo attraverso tutti e cinque i sensi e deve essere condivisa affinché la mente si possa espandere fino a fondersi con quella dell’hippie più vicino. La psichedelia è una musica mentale che necessita di fisicità. Per questo le migliori band psichedeliche, per quanto memorabili siano i loro album in studio, hanno raggiunto il massimo effetto allucinatorio dal vivo. Tentare di immortalare su disco eventi che riduttivamente vengono definiti concerti è ovviamente una follia, ma resta il fatto che alcune registrazioni possiedono una libertà ed una fantasia inconcepibili in studio che le elevano tra le migliori testimonianze della storia delle rispettive band (e che sono tesori per i poveracci come me che non hanno avuto la fortuna di essere presenti). Space Ritual è senza dubbio uno di questi (la metà live di Ummagumma e il Live/Dead altri 2 ottimi esempi). Registrato alla fine del 1972, il primo disco live degli Hawkwind è un’orgia dove la frenesia hard rock è deformata in caotiche dilatazioni lisergiche, un trip fantascientifico che rispecchia la mentalità indipendente e realmente alternativa vissuta dai membri della band (punti di riferimento della comune di Notting Hill a Londra). Con l’entrata di Lemmy Kilmister al basso, l’astronave guidata da Dave Brock (chitarra e voce) raggiunge il massimo splendore creativo e marchia a fuoco la storia della musica pesante con un baccanale colorato e divertito che getterà le basi per ogni futura commistione di heavy & psych, attraverso attitudine punk, sperimentalismi progressivi e allucinazioni assortite. Capolavoro.
[R.T.]
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Hawkwind – Space Ritual
(United Artists Records, 1973)

Psychedelic ritual needs to be lived: it cannot simply to be listened to. It is an experience that has to penetrate the body through each of the five senses and have to be shared so that your mind could extend up to the point to merge with the one of the hippie closer to you. Psychedelia is a mental music that needs physicality. This is the reason why the best psychedelic bands reached the maximum hallucinatory effect in their live shows, no matter how memorable their studio albums are. Trying to eternalize on records these events - reductively defined "concerts" - is obviously a nonsense. Yet some recordings own such a freedom and a fancy (unthinkable in studio sessions!) that elevate them amongst the best evidences of the history of these bands (and that can be considered like jewels for the ones, like me, not lucky enough to attend them). Space Ritual is certainly one of these (the live half of Ummagumma and Live/Dead are two others great examples). Recorded at the end of 1972, the first Hawkwind live album is an orgy where the hard rock frenzy is deformed in chaotic lysergic dilatations, a sci-fi trip reflecting the independent and really alternative mentality of the members of the band (points of reference of the Notting Hill commune, in London). With the entry of Lemmy Kilmister at the bass guitar, the spaceship driven by Dave Brock (guitar and voice) reaches its maximum creative splendour, marking the history of heavy music with a coloured and  amused bacchanal and laying - through punk attitude, progressive experimentations and assorted hallucinations - the foundations of every future commingling of heavy & psych. Masterpiece.
[R.T.]

martedì 26 gennaio 2016

Dødheimsgard – A Umbra Omega



Dødheimsgard – A Umbra Omega
(Peaceville, 2015)

Se il metal estremo non è più considerato un genere statico e unidirezionale (semplice liberazione di violenza bruta repressa) lo dobbiamo a personaggi come Yusaf Parvez (Vikotnik) che lungo la loro carriera si sono spinti sempre un passo al di là delle "Colonne d’Ercole" imposte dal genere per plasmare la musica oscura e pesante in forme assolutamente inedite (basti pensare ad un capolavoro come Written in Waters dei Van Buens Ende, in cui Vikotnik ha avuto un ruolo di protagonista). Dopo 8 anni dal disco precedente (e 16 da quello precedente ancora), coadiuvato dal ritorno di Aldrahn alla voce, torna con i suoi Dødheimsgard, con un album che segna un ulteriore passo in avanti per la musica pesante più sperimentale. A Umbra Omega è una folle corsa in un labirinto di specchi, un’opera straniante e stordente in cui il gelo del black metal del Nord Europa fluttua come iceberg alla deriva in un oceano psichedelico. Opera progressiva nella sua più pura essenza, il quinto full lenght dei Dødheimsgard è ambizioso, ricercato, cerebrale ma, nonostante la complessità, affascina e rapisce fin da subito per la sua atmosfera misteriosa. Diversamente da altre opere che hanno nell’elettronica l’elemento portante dell’azione rinnovativa delle radici black metal, A Umbra Omega  - suonato con i classici strumenti metal, con alcune aperture melodiche lasciate a sassofono e pianoforte - ha la sua originalità nelle strutture fluide delle canzoni e nelle sue imprevedibili melodie. Psicotico e visionario, l’album dei Dødheimsgard è la dimostrazione che spingersi oltre l’estremo limite conosciuto è la via per perdersi e talvolta, come in questo caso, tornare con un Capolavoro.
[R.T.]
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Dødheimsgard – A Umbra Omega
(Peaceville, 2015)

If extreme metal is no more considered as a static and one-dimensional genre (simple liberation of repressed raw violence) we owe it to musicians such as Yusaf Parvez (Vikotnik) that during their career had always gone beyond those "Pillars of Hercules" imposed by the genre, molding obscure and heavy music in absolutely inedited shapes (let’s think about a masterpiece as Written in Waters by Van Buens Ende, in which Vikotnik was protagonist). Eight years after the previous album (and 16 from the previous one again), assisted by the return of Aldrahn at the voice, he comes back with his Dødheimsgard, with an album that can be considered as a further step forward for the most experimental heavy music. A Umbra Omega is a crazy run in a labyrinth of mirrors, an estranging and stunning opus in which the frost of North European black metal floats adrift like an iceberg in a psychedelic ocean. Progressive opus in its most pure essence, the fifth full length album by Dødheimsgard is ambitious, refined, cerebral: yet, despite its complexity, it fascinates and ravishes from the very beginning because of its mysterious atmosphere. Unlike many other albums - having in the use of electronic the cornerstone of the innovation of black metal roots - A Umbra Omega, with its classical metal instrumentation, enriched only by some sax or piano melodies, has got its originality in the fluid structures of the songs and in its melodic unpredictability. Psychotic and visionary, Dødheimsgard album is the demonstration that going beyond the extreme known limit is the way to lose ourselves and sometimes, as in this case, to come back with a Masterpiece.
[R.T.]



venerdì 22 gennaio 2016

Strana Officina - 09.01.2016 - The Cage Theatre (Livorno)



Strana Officina - 09.01.2016 - The Cage Theatre (Livorno)

Sono passati pochi giorni dalla morte di Lemmy, vero e proprio simbolo dell’heavy metal old school, per cui il concerto della Strana Officina (band leggendaria che ha aperto, in Italia, le porte al genere) assume un significato tutto particolare. Nella loro Livorno i quattro veterani erigono un vero e proprio baluardo in onore della musica pesante, e con la carica che riescono a sprigionare demoliscono qualsiasi sentimento nostalgico, nonostante la loro proposta sia esplicitamente legata al passato. Una musica caratterizzata dal susseguirsi di riff grezzi e trascinanti e un groove poderoso che ha saputo rinascere dopo la tragedia degli anni 90 (i fratelli Roberto e Fabio Cappanera, anime della band, morirono in un incidente automobilistico), con una nuova formazione che mantiene viva una delle storie più belle del rock duro italiano. La potenza di Rolando (batteria) e Dario (chitarra) Cappanera, infatti, mantiene attuale la forza della band di Bud Ancillotti ed Enzo Mascolo (membri storici del gruppo) donando anche un'atmosfera southern sporca di grasso di motore (di cui Zakk Wylde sarebbe fiero) ad un heavy classico in cui melodia e potenza convivono alla perfezione. Una serata dell'heavy metal più sincero che uno possa oggi immaginare - sia per la band, sia per il pubblico presente.
[R.T.] 

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Strana Officina - 01.09.2016 - The Cage Theatre (Livorno) 

Less than two weeks from Lemmy's death: he was a real icon for old school heavy metal and so Strana Officina concert gains a special meaning tonight. Legendary band in Italy for that musical genre, in their hometown Livorno the four veterans erect a fortress in honour of heavy music, and with their powerful attitude they tear down any nostalgic feeling, altough their proposal it is explicitly tied to the past. Their music is characterized by a sequence of raw, enthralling riffs and a mighty groove, and it was able to reborn after the tragedy occured in the 90s (the two brothers, Roberto and Fabio Cappanera, leaders of the band, died in a car incident), with new band members that keep alive one the most fascinating story of Italian hard rock. The mighty energy of Rolando (drums) and Dario (guitar) Cappanera mantains the strength of the band of historical members Bud Ancilotti and Enzo Mascolo, giving a greasy southern atmosphere (of which Zakk Wylde would be pride) to a classical heavy metal in which melody and power cohabit perfectly. A night made of the most sincere heavy metal: both for the band and the audience.
[R.T.]

venerdì 15 gennaio 2016

David Bowie - Ziggy Stardust and The Spiders from Mars – The Motion Picture Soundtrack


David Bowie - Ziggy Stardust and The Spiders from Mars – The Motion Picture Soundtrack 
(RCA, 1983)

La premessa è che non si tratta di una recensione. Non avevo mai preso in considerazione l’idea di scrivere di un album di David Bowie. Ma la sua scomparsa, unita al conseguente senso di vuoto lasciato, mi spinge a cercare un modo per ricordarlo. 
Ho scelto un album che non è nemmeno propriamente tale, ma che per me è importante, perché è proprio attraverso questo disco che ho conosciuto la musica e la figura di David Bowie, iniziando ad amarla ed approfondirla (e per la precisione, non si trattava dell’edizione cd ora in mio possesso, bensì di una riproduzione su cassetta della prima edizione dell’83). 
È un live. È una collezione delle sue più belle canzoni del periodo 1969-1973, ed ingloba ben 5 dei suoi album usciti in quel quinquennio. È pensato come un film. È assolutamente iconico. È l’ultimo “atto” di Ziggy Stardust: sicuramente uno dei personaggi più significativi, duraturi e amati fra i molti incarnati da David Bowie. Registrato durante lo storico concerto del 3 luglio 1973 all’Hammersmith Odeon di Londra, il film-concerto (pubblicato solo 10 anni dopo la sua realizzazione) è il culmine ed il punto di non ritorno di Ziggy-Bowie: l’artista ed il personaggio - fusi in un’unica entità in cui non si vedeva l’inizio dell’uno e la fine dell’altro – giungono insieme alla fine di un percorso tanto affascinante quanto troppo pesante e vincolante per essere ancora portato avanti. Maschera e corazza di Bowie, Ziggy deve necessariamente giungere alla sua fine, per consentire una rinascita, una reincarnazione. La registrazione che immortala questo live è il suo addio “megalomane” e perfetto. 
In una sequenza impeccabile – che parte con la doppietta Hang on to Yourself / Ziggy Stardust e termina emblematicamente con Rock ‘n’ Roll Suicide – si srotola davanti all’ascoltatore tutta la vita – la parabola – di Ziggy Stardust. È un perfetto alternarsi di momenti prettamente rock, dilatazioni acustiche e ballate. È impregnato del glam rock dei primi anni 70, è proto-punk (la cui nascita ed esplosione erano imminenti), ed è seminale per molte bands, con le sue anticipazioni del post-punk e della darkwave a venire. E poi come rimanere immobili sulle note di Cracked Actor o Suffragette City? Come non volare lontano ascoltando All the Young Dudes, Moonage Daydream o Space Oddity? Il tutto con il valore aggiunto di un grande live!
Grazie infinite Mr. Bowie per la tua musica, per la tua arte, per ciò che, di volta in volta, in questi 50 anni ci hai lasciato intravedere della tua figura attraverso le tue poliedriche trasformazioni. 
[E.R.]

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David Bowie - Ziggy Stardust and The Spiders from Mars – The Motion Picture Soundtrack
(RCA, 1983)

The premise is: this is not a review. I never thought about/of writing about David Bowie’s albums. Yet his passing, together with the feeling of emptiness, pushes me to look for a way to remember him.
Indeed I chose to write about an album which can not be properly said “album”, Anyway it is fundemental for me, because thanks to it I discovered David Bowie and his music, loving it and getting deeper and deeper into it (and to be correct, it was not the cd release I now own: it was a tape from a musicassette of the first release of 1983).
It is a live. It is a collection of his most beautiful songs of the 1969-1973 era and it includes 5 of the full-lenghts he released in those five years. It is conceived as a movie. It is definitely iconic. It is the last “act” of Ziggy Stardust: maybe the most relevant, long-living and beloved character embodied by David Bowie. Recorded during the unforgettable concert of July the 3rd 1973 at the Hammersmith Odeon in London, the movie-concert (released only ten years later) is the climax and the point of no return of Ziggy-Bowie: the artist and the character – melt in one single entity – came together at the end of a journey as much fascinating as too heavy to be carried on. Bowie’s mask and armor, Ziggy has to come to his end to allow a rebirth, a reincarnation. Immortalizing this concert, this recording becomes his perfect, “megalomaniac” farewell.
In an impeccable sequence – starting with Hang on to Yourself / Ziggy Stardust, ending in emblematic way with Rock ‘n’ Roll Suicide – the whole life of Ziggy Stardust unfolds in front of the listener. It is a perfect combination of pure rock, acoustic dilations and ballads. It is steeped in early 70s glam rock, it is proto-punk (its birth and explosion were imminent), and it seminal for many bands, with its anticipations of post-punk and darkwave. And then, how can anyone stand still while listening to Cracked Actor or Suffragette City? How can anyone keep his own feet on the (Earth) ground during All the Young Dudes, Moonage Daydream or Space Oddity? All this plus the added value of a grat live performance!
Infinite thanks to you Mr. Bowie: for your music, for your art, for the glimpses of you through your polyhedric transformations along your 50 years of career.
[E.R.]

sabato 9 gennaio 2016

Steve Von Till - A Life Unto Itself


Steve Von Till – A Life Unto Itself
(Neurot Recordings, 2015)

Abbandonare il fragore della civiltà per rifugiarsi nel cuore dell’ambiente selvaggio, distaccandosi dai ritmi e dalle ossessioni umane, accettando i tempi imposti dalla Natura. Steve Von Till continua nel suo percorso solista, percorrendo con lentezza e contemplazione i sentieri del folk notturno che avevano caratterizzato i suoi precedenti tre album, lasciando da parte le esplosioni apocalittiche della sua band madre, i Neurosis, e gli esperimenti psichedelici a nome Harvestman. Von Till si fa accompagnare nel suo pellegrinaggio da pochi e fidati compagni come Eyvind Kang (viola), Jason Kardong (pedal steel) e Randal Dunn (sintetizzatore). Ma principalmente A Life Unto Itself è un viaggio solitario, un percorso in cui Von Till, ancor più che in passato, lascia che siano la sua profonda e rauca voce (per certi affine a quella di Mark Lanegan) e i suoi arpeggi di chitarra (debitori della malinconia di Nick Drake e Townes Van Zandt) a illuminare il bosco immerso nelle tenebre, con qualche breve lampo elettrico dal sapore onirico. Sette brani che evocano odori di muschio e foglie secche, e immagini di vaste foreste, gelidi laghi e montagne avvolte dalla nebbia autunnale. Von Till conferma la sua intensa poetica tratteggiando un sentiero in cui la fragilità di un uomo a cospetto della Natura è bilanciata dalla sua grande forza interiore nell’affrontarla. Intimo e sciamanico, A Life Unto Itself è il dono che Von Till lascia a tutti gli estimatori dei territori selvaggi.
[R.T.]
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Steve Von Till – A Life Unto Itself
(Neurot Recordings, 2015)

Leaving the noise of civilization to take refuge into the heart of the wild world, detaching from human obsessions and hustle and bustle, accepting the pace imposed by Nature. Steve Von Till continues his soloist route, slowly and in contemplative mood, going over again the paths of nocturnal folk that characterize his previous three albums, leaving aside the apocalyptic explosions of his main band (Neurosis) and the psychedelic experiments of Harvestman project. Along his pilgrimage Von Till is accompanied by a few trusted friends: Eyvind Kang (viola), Jason Kardong (pedal steel) and Randal Dunn (synth). Yet A Life Unto Itself is mainly a lonely voyage, a journey in which - even more than in the past - Von Till let his deep, hoarse voice (in some ways similar to Mark Lanegan one) and his guitar arpeggios (debtors of Nick Drake and Townes Van Zandt melancholy) brighten the woods surrounded by darkness, with some transitory, dreamlike-tasty electric lightnings. Seven songs evoking the smell of musk and dry leaves, images of vast forests, chill lakes and mountains shrouded by the autumnal fog. Von Till confirms his intense poetics sketching a path in which the frailty of a man in the presence of Nature is balanced by his great interior strength in the attempt to cope with her. Intimate and shamanistic, A Life Unto Itself is the gift that Von Till gives to all the lovers of wild territories.
[R.T.]

mercoledì 6 gennaio 2016

Moon Duo - Shadow of the Sun


Moon Duo – Shadow of the Sun
(Sacred Bones Records, 2015)

Quel tizio barbuto e quella tizia con lo sguardo perso dietro la frangetta hanno regalato anche a voi le strane pilloline che hanno colorato tutta la mia camera? Anche voi avete la strana sensazione che in mezz’ora di musica quelle pilloline vi facciano attraversare epoche intere di pop psichedelico, come sospesi in una bolla? La loro minuscola astronave, guarda caso decollata da San Francisco, sta volteggiando ossessiva nel vostro cervello, seguendo spirali ritmiche dalle quali non è possibile uscire? Il barbuto chitarrista ha sciolto anche il vostro cubetto di zucchero con un flusso liquido di melodie di chitarra che hanno annullato gli effetti della forza di gravità sul vostro corpo? Come diavolo hanno fatto questi due spostati a fondere gli stordenti labirinti dei Cluster ai tenebrosi sintetizzatori dei Suicide, con un lato umano tipicamente garage rock, affogando tutto questo in una gustosa marea neopsichedelica che ha il sapore di fine anni 80? D’accordo, questi due non sono gli ultimi arrivati nel campo degli uscieri delle porte della percezione. Erik “Ripley” Johnson è la mente dei Wooden Shjips e da anni si diverte a giocare al bianconiglio con i suoi ascoltatori, e con la sua metà Sanae Yamada è giunto al terzo album sotto il nome Moon Duo (avvalendosi per l’occasione di un batterista vero e proprio, John Jeffrey, al posto della drum machine). Questa è gente che sa come far perdere l’orientamento, costringendo l’innocente ascoltatore a doverli seguire. Questa è gente che sa creare dipendenza. Shadow of the Sun è la loro nuova droga. L’avete presa anche voi?
[R.T.]
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Moon Duo – Shadow of the Sun
(Sacred Bones Records, 2015)
Did that bearded guy and that lady with eyes lost behind her fringe give to you the same strange pills that coloured my room? Do you feel the strange sensation that during half an hour of music those small pills are carrying you through different ages of psychedelic pop, as if you were suspended in a bubble? Is their tiny spaceship (coincidentally taken off from San Francisco) circling obsessively in your brain, following rhythmic spirals from which you cannot get out? Did the bearded guitarist melted also your sugar cube with a liquid flow of guitar melodies cancelling the effects of force of gravity on your body? How the hell could these two nutty guys be capable of mixing the stunning labyrinths of Cluster and the tenebrous synths of Suicide, with a human side typical of garage rock, drowning all this in a tasty neo-psychedelic wave that have the flavour of the latest 80s? OK, these two guys are not the newcomers among the doorkeepers of perception. Erik “Ripley” Johnson is the mastermind of Wooden Shjips and since many years he enjoys playing the role of the White Rabbit with the listeners of his music, and together with his half Sanae Yamada he arrived to the third Moon Duo album (this time with a real drummer, John Jeffrey, in place of a drum machine). These are people who know pretty well the way to make you lose your orientation, forcing innocent listeners to follow them. These are people that know how to create dependence. Shadow of the Sun is their new drug. Did you already try it?
[R.T.]

domenica 3 gennaio 2016

Stone Temple Pilots - Core


Stone Temple Pilots – Core
(Atlantic Records, 1992)

Il successo fulmineo degli Stone Temple Pilots, che raggiungono la terza posizione di Billboard e lanciano i loro video in heavy rotation su MTV fin dall’album d’esordio, li condanna ad esser considerati una band creata ad arte per sfruttare il successo costruito dai gruppi di Seattle, soprattutto perché la provenienza della band (California) così come la vena vagamente patinata della loro musica, li rende estranei a quel mondo alternativo che si è creato nello stato di Washington. Adorati dal grande pubblico, ma snobbati dagli appassionati del disagio che imperversa a Seattle, gli Stone Temple Pilots vengono artisticamente sottovalutati, perché non tutti colgono la colorata teatralità di Scott Weiland né gli adrenalinici influssi psichedelici della loro musica, figlia del crossover dei Jane’s Addiction. Nella musica degli Stone Temple Pilots, infatti, oltre ad un’evidente componente grunge che li accomuna a Pearl Jam, Soundgarden ed Alice in Chains, c’è una caleidoscopica vena psych ben identificabile nelle stratificate melodie di chitarra di Dean De Leo, nelle quali convivono pesantezza metal e riflessi psichedelici. Grazie alla dinamica sezione ritmica, affidata all’altro fratello De Leo (Robert, basso) e ad Eric Kretz (batteria) gli Stone Temple Pilots sprigionano in Core un’energia che Scott Weiland cavalca e domina con la sua voce. La profondità, potenza e calore di questa verranno minimizzate dalla critica e considerate semplici emulazioni delle capacità di Vedder, Cobain e Staley. Ma Weiland avrà modo, con il disco successivo, di dimostrare che le sue grandi capacità sono anche supportate da una forte personalità. Core non rivoluziona il rock degli anni 90, ma ha il pieno diritto di essere considerato tra i più intensi e significativi lavori di quell’epoca.
[R.T.]

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Stone Temple Pilots – Core
(Atlantic Records, 1992)

Instantaneous success (they reached Billboard third position with their debut album and heavy rotation on MTV with the first video) condemns Stone Temple Pilots to be considered as a band expressly created to benefit from the success of Seattle bands - especially because of their geographical origin (California) and the vaguely glossy atmosphere of their music making them as a sort of strangers in the alternative world created in Washington state. Adored by the masses, but slighted by fanatics of hardship and uneasiness reigning in Seattle, Stone Temple Pilots were artistically underestimated, because many people do not understand Scott Weiland coloured theatricality neither the psychedelic power of their music, heir of Jane’s Addiction crossover. In addition to a noticeable grunge component shared with Pearl Jam, Soundgarden and Alice in Chains, in Stone Temple Pilots music there is a kaleidoscopic psych mood, identifiable in the stratified guitar melodies by Dean De Leo, in which metal heaviness cohabits with psychedelic reflexes. Thanks to the dynamic rhythmic session, entrusted to the other De Leo brother (Robert, bass) and to Eric Kretz (drums), in Core Stone Temple Pilots release a great energy, ridden and dominated by Scott Weiland voice. Depth, power and warmth of his voice will be so much belittled by the critics up to the point of being considered just as an emulation of Vedder, Cobain and Staley capabilities. Yet, with the following album, Weiland will have the opportunity to show that his great capabilities are even supported by a strong personality. Core does not revolutionize 90s rock music, yet it has the right to be considered as one the most intense and significant opus of that era.
[R.T.]