Inizia l’estate, stagione di festival all’aperto e megaeventi rock, con canzoni che hanno fatto la storia della mia adolescenza, da cantare a squarciagola in mezzo ad un oceano di 60.000 persone. Eppure c’è chi come me si ostina a rifugiarsi nel buio di un locale al chiuso, come se fosse sempre gennaio, per ascoltare musica devastante ed uscirne devastato. C’è qualcosa di mistico e spirituale in tanto masochismo. Sofferenza catartica.
Appena messo piede all’interno del locale, sulle prime allucinanti note dei Deaf Kids, intuisco che saranno confermate le aspettative. Perderò litri di sudore ed evaporerà ogni energia, mentre schiena e piedi saranno presto a brandelli. La musica dei Deaf Kids non aiuta a rinfrescare e ossigenare la sala. Un assalto in cui un riff alla Motorhead si ripete ossessivo (come se fosse stato messo in loop da una band math rock), mentre una voce “berciata” viene manipolata da delay infiniti e cascate di effetti. Accartocciamenti noise e sfuriate proto-metal talmente deviate da sembrare industrial, per un concerto interessante, ma alla lunga difficile da sostenere. Mentre Dave Edwardson dei Neurosis si dimena sotto il palco, io esco a prendere una boccata di ossigeno. Perché tra poco non ci sarà davvero più tempo per respirare.
Per la terza volta in due mesi vengo travolto dai Converge. Ma, a differenza del Roadburn, stasera non ci sono suoni calibrati al millimetro, band quadrata e impeccabile (ricordando soprattutto il set dedicato a You Fail Me), né pubblico esaltato ma contenuto. Stasera è il massacro. Bastano pochi secondi e le prime file si trasformano in un carnaio. In questo degenero di corpi sudati che si scontrano da ogni angolazione, la band di Salem trae un insano godimento e pesta sempre più pesante, via via che scorrono i minuti. Bannon non calibra la forza e la libera come le esplosioni richiedono, suonando talvolta un po’ sfiatato e rischiando di sgretolarsi contro il muro di suono. Ma l’energia che riesce a sprigionare è comunque dirompente, e l’emotività che trasmette ti penetra dentro. Ogni canzone suona meglio, e più devastante, della precedente (sia dal punto di vista fisico che emotivo). Il loro set - un’ora secca incentrata soprattutto sull’ultimo, bellissimo, The Dusk in Us - è un uragano che ripulisce la mente.
Dopo la tempesta, sudati fradici e spossati, mi ritrovo nell’occhio del ciclone con i Neurosis. In uno stato di calma apparente, tra arpeggi post rock e flussi ambient di synth, ma con l’apocalisse che incombe minacciosa all’orizzonte, sotto forma di riff mastodontici e pesantezza insostenibile. La band di Oakland ha suoni impeccabili e l’impatto delle sue bordate spettina le lunghe barbe presenti tra il pubblico. Dal primo riff che apre il loro concerto (quello di Given to the Rising), all’ultima rullata di quel trip industrial/postmoderno che è Through Silver in Blood (perfetta chiusura di serata), rimango in estasi mistica, assaporando la sofferenza fisica dovuta al caldo soffocante, e trasformandola in visioni celestiali di galassie che collassano ed eruzioni vulcaniche preistoriche. Nel mezzo a tutto questo c’è Burn, cioè la canzone dalla quale il mio amore per questa band è nato, quasi quindici anni fa. Nella sua intimità rovente, nei suoi glaciali momenti di solitudine cosmica, e nelle sue aperture distorte, ringiovanisco di una quindicina di anni. Catarsi completata.
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Neurosis + Converge + Deaf Kids - 06.17.2018 - Zona Roveri (Bologna)
Summer begins. Season of outdoor festivals and mega-rock-events, with songs that made the history of my adolescence, to be sung loudly in the middle of an ocean of 60,000 people. Yet there are those like me who keep on sheltering in the darkness of an indoor venue, as in an eternal January, to listen to devastating music and get out of it devastated. There is something mystical and spiritual in all this masochism. Cathartic suffering.
As soon as I enter the club, on the first hallucinatory notes of Deaf Kids, I feel that my expectations will be confirmed. I will lose liters of sweat and I will evaporate all my energy, while my back and feet will soon be shredded. Deaf Kids music does not help to refresh and oxygenate the room. An assault in which a Motorhead riff repeats itself obsessively (as if it had been looped by a math rock band), while a screaming voice is manipulated by infinite delays and cascades of effects. Noise crumplings and proto-metal outbursts so devious as to seem industrial, for an interesting concert, but in the long run a bit difficult to sustain. While Dave Edwardson (Neurosis) follows the gig under the stage, I go out for a breath of oxygen. Because soon there will not really be more time to breathe.
For the third time in two months I am overwhelmed by Converge. But, unlike at Roadburn, tonight there are no sounds calibrated to the millimeter, nor an impeccable band (remembering above all the set dedicated to You Fail Me), neither an exalted yet contenaid audience. Tonight it is a massacre. Just a few seconds and the first rows are transformed into a havoc. In this chaos of sweaty bodies colliding from every angle, the band of Salem draws an insane enjoyment and beats heavier and heavier, as the minutes run. Bannon does not calibrate his force and he frees it as the explosions require, sometimes sounding a little out of breath and risking to crumble against the sound wall. But the energy that he manages to unleash is still disruptive, and the emotionality he transmits penetrates you inside. Each song sounds better and more devastating than the previous one (both physically and emotionally). Their set - an exact hour mainly focused on the latest, amazing, The Dusk in Us - is a hurricane that cleanses the mind.
After the storm, sweaty and exhausted, I find myself in the eye of the storm with Neurosis. In a state of apparent calm, between post rock arpeggios and ambient synth fluxes, yet with the apocalypse looming menacingly to the horizon, in the form of mammoth riffs and unbearable heaviness. The band from Oakland has got flawless sounds and the impact of its attacks shakes the many long beards of the audience. From the first riff opening their set (that of Given to the Rising), to the last drum roll of that industrial/post-modern trip that is Through Silver in Blood (perfect closing of the evening), I remain in mystical ecstasy, savouring the physical suffering due to the suffocating heat, and transforming it into celestial visions of collapsing galaxies and prehistoric volcanic eruptions. In the middle of all this there is Burn, the song from which almost fifteen years ago my love for this band was born. In its hot intimacy, in its icy moments of cosmic solitude, and in its distorted openings, I rejuvenate about fifteen years. Catharsis completed.
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