mercoledì 11 marzo 2020

Desertfest Antwerp 2019 - Day 1


Desertfest Antwerp 2019 – Day 1
[Sunnata + Zeal & Ardor + Truckfighters + Nebula + Monomyth]

Il Desertfest non è un semplice fine settimana di concerti: è un’esperienza. E ogni anno è un’esperienza diversa. L’atmosfera è però sempre la stessa: piacevole e rilassata. Una comunità di amici che si riconosce in questa musica e in questo modo loose di viversela. Nuovi compagni di viaggio si aggiungono ai vecchi affezionati, e il mio quarto Desertfest Antwerp suona diverso anche per questo, oltre che per le scelte musicali degli organizzatori. Quest’anno il festival mostra infatti una forte componente sludge, e propone due headliner sorprendenti: Zeal & Ardor e Ty Segall, aprendo la sua proposta a musica spiccatamente sperimentale e alternativa, ancor più che in passato.

Il battesimo di quest’edizione è affidato ai Monomyth, sul Canyon Stage. Non poteva esserci inizio migliore. Il loro space rock progressivo è ipnotico e subito mi perdo nel labirinto costruito dai cinque olandesi. Il groove ossessivo, circolare e precisissimo di Sander Evers (già batterista degli storici 35007) è il battito cardiaco che dona vita ad una psichedelia strumentale dominata da echi profondi e arpeggi liquidi ma anche da riff robusti e rocciosi. Quattro lunghi pezzi (di cui due dal nuovo album Orbis Quadrantis) per 40 minuti di musica che, personalmente, si sarebbero potuti dilatare fino ad occupare l’intera giornata. Aspettavo il loro ritorno da quando li vidi al mio primo Desertfest (Londra 2016) e - grazie anche alla loro componente krautrock - si confermano uno dei nomi più interessanti del genere, tra quelli attualmente in circolazione! Quest’anno il festival ha segnato un goal al primo minuto di gioco: band del giorno, istantaneamente!

Entro nella sala principale (Desert Stage) a concerto dei Nebula appena iniziato. Ciò di cui mi accorgo immediatamente è che il gruppo di Eddie Glass sembra un altro rispetto al concerto di Livorno di pochi giorni prima. Carico a mille, esuberante, incontenibile, ma in grado di incanalare l’energia in canzoni dirette, compattando la sabbia del deserto in riffoni stoner, anziché soffiandola via in divagazioni soliste. Anche Glass appare più lucido, divertito e determinato, e finalmente riconosco la musica dei Nebula per quello che è: stoner rock trascinante con un retrogusto sporco e acido che sa tanto di anni '90. Un pezzo di storia, finalmente assaporato nel modo giusto.

Sullo stesso palco salgono poi i Truckfighters, per mostrarci un’interpretazione dello stoner rock completamente diversa. Privi di qualsivoglia componente aspra o polverosa, gli svedesi suonano una musica festaiola dominata da una chitarra carica di fuzz. Se musicalmente hanno un ottimo impatto (grazie ad un grande batterista), dal punto di vista vocale sono davvero fiacchi! Se nelle parti più dirette, cariche di groove e melodia (alla Queens of the Stone Age) sono molto divertenti, in quelle più cerebrali e progressive non sembrano troppo a fuoco. Impossibile comunque non divertirsi ad un loro concerto, grazie alla loro abilità come intrattenitori: il chitarrista salta e corre per tutto il concerto e scende a suonare in mezzo al pubblico, mentre il bassista chiude lo show facendo stage diving. Ma se nel complesso divertono moderatamente, come una festa a base di birra analcolica, è il pezzo di chiusura, Desert Cruiser, che fa impennare l’eccitazione. Anche perché non cantato da loro ma da tutto il pubblico, questo pezzo esalta come una cassa di birra trovata in cantina quando ormai tutto era dato per perduto! Desert Cruiser da sola vale tutto il concerto, dimostrando quanto i Truckfighters siano una band che con un singolo ha costruito la sua fama. Ma che singolo! Da bere tutto d’un fiato!

Immagino la sorpresa, per il tradizionale pubblico del Desertfest, quando sono stati annunciati gli Zeal & Ardor come headliner. Il loro metal moderno e ipercompresso, con qualche occhiata nelle profondità infernali della fiamma nera nordeuropea, mischiato a cori e melodie gospel afroamericane, è una miscela buona per infiammare il pubblico del Roadburn, più che quello di questo festival più classicamente heavy psych. Scommetto ceh in molti avranno pensato ad uno scherzo di cattivo gusto. Certamente non io! Mi avvicino al palco con grandi aspettative, ma anche con un po’ di preoccupazione, data la natura della musica e del progetto (nato come one man band, e solo in seguito sviluppatosi in un gruppo vero e proprio). Quel che mi trovo di fronte è sorprendente! Sono proiettato a velocità stratosferica in una chiesa del profondo sud degli Stati Uniti nella quale i canti religiosi si trasformano in invocazioni demoniache. E’ tutto talmente assurdo che pare di essere ad un ritrovo di una setta di fondamentalisti sotto LSD. Il Tempio del Popolo di Jim Jones non avrebbe potuto avere colonna sonora migliore, soprattutto durante il massacro di Jonestown. Spaventoso e meraviglioso al tempo stesso, il concerto degli Z&A è un bad trip suonato perfettamente. Eh sì! Perché questo delirio schizofrenico stupisce per quanto suoni compatto e fluido. Potenza e tiro devastanti, ma anche capacità di costruire atmosfere affascinanti. La band suona chirurgica, intrecciando con nonchalance cori a tre voci, riuscendo perfino a valorizzare gli splendidi brani del primo disco, parzialmente penalizzati dalla loro produzione estremamente lo-fi (eccezion fatta per Come On Down, il cui nuovo arrangiamento non mi convince al 100%). Manuel Gagneux in particolare è un cantante versatile e molto dotato, con una sensibilità unica, perfettamente a suo agio nelle trasformazioni alle quali lo costringe la sua musica. Una musica con una forte personalità, estremamente originale, che dal vivo si dimostra (e non era per niente scontato!) esaltante. Alla fine cosa c’è di più psichedelico di esser riusciti a portare i canti degli schiavi neri d’America nei freddi deserti di ghiaccio della Scandinavia? Concerto indimenticabile!

Concludo la mia serata al Canyon Stage, ma sono davvero troppo stanco per riuscire ad apprezzare la musica dei polacchi Sunnata. Le loro litanie ipnotiche, guidate da spirali di basso ossessive, e alternate a muri di suono a metà tra lo sludge più atmosferico e le melodie oblique degli Alice in Chains, mostra grandi potenzialità che il mio fisico spossato non è però in grado di godersi. Per questo abbandono il palco prima di aver ascoltato metà concerto. Spero di avere l’occasione per ascoltarli come meritano, in futuro. Ora è il momento di recuperare le forze per la giornata di domani.
[R.T.]
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Desertfest Antwerp 2019 – Day 1
[Sunnata + Zeal & Ardor + Truckfighters + Nebula + Monomyth]

Desertfest is not simply a weekend of concerts: it is an experience. And every year is a different one. However, the atmosphere is always the same: pleasant and relaxed. A community of friends who recognize themselves in this music and in this loose way of living it. New travel companions add to the old ones, and my fourth Desertfest Antwerp sounds different also for this reason, and not only for the musical choices of the organizers. Indeed, this year the festival shows a strong sludge element, and offers two surprising headliners: Zeal & Ardor and Ty Segall, opening its proposal to distinctly experimental and alternative music, even more than in the past.

The baptism of this edition is entrusted to Monomyth, on Canyon Stage. There could be no better start. Their progressive space rock is hypnotic and I immediately get lost in the labyrinth built by the five Dutchmen. Sander Evers (former drummer of the historians 35007) obsessive, circular and extremely precise groove is the heartbeat that gives life to an instrumental psychedelia dominated by deep echoes and liquid arpeggios, but also by robust rocky riffs. Four long tracks (including two from the latest Orbis Quadrantis) for 40 minutes of music that, personally, could have last the whole day. I had been waiting for their return since I saw them at my first Desertfest (London 2016) and - thanks also to their krautrock component - they confirmed to be one of the most interesting current names of the genre! This year the festival scored a goal in the first minute: instantly band of the day!

I enter the main hall (Desert Stage) while Nebula's concert has just begun. What I immediately notice is that Eddie Glass' band seems another compared to the one I listened to in Livorno just a few days before. Groovy, exuberant, irrepressible, but at the same time able to channel energy into direct songs, compacting the desert sand in stoner riffs, rather than blowing it away in solo digressions. Also Glass appears more focused, amused and determined, and I finally recognize Nebula's music for what it is: enthralling stoner rock with a dirty acid aftertaste so much reminiscent of the 90s. A piece of history, finally savoured in the right way.

Truckfighters then get on the same stage to show us a completely different interpretation of stoner rock. Without any harsh or dusty element, the Swedes play party music dominated by a fuzzy guitar. If musically they have got an excellent impact (thanks to a great drummer), from a vocal point of view they are really weak! If in the most direct parts, full of groove and melody (in Queens of the Stone Age style) they are really funny, in the more cerebral and progressive ones they don't seem too focused. However, it is impossible not to have fun during their gig, because they are great entertainers: the guitarist jumps and runs during the whole concert and gets off the stage to play among the audience, while the bassist closes the show stage diving. But if overall they entertain moderately, like a non-alcoholic beer party, it is the closing song, Desert Cruiser, that makes the excitement soar. Also because not sung by them but by the whole audience, this track exalts like a crate of beer found in the cellar when everything was now lost! Desert Cruiser alone is worth the whole concert, demonstrating how Truckfighters are a band that has built its fame with a single. But what a single! To be drunk in one breath!

I imagine the surprise, for the traditional Desertfest audience, when Zeal & Ardor were announced as headliners. Their modern, hypercompressed metal, with a few glances into the infernal depths of the North European black flame, mixed with African American gospel choirs and melodies, is a good mixture to inflame the audience of Roadburn, more than that of this more classically heavy psych festival. I bet that many have thought of a bad taste joke. Certainly not me. I approach the stage with great expectations, but also with a little concern, given the nature of the music and of the project (born as a one man band, and only later developed into a real combo). What I face is surprising! I am projected at stratospheric speed into a church in the deep south of the United States where religious songs are transformed into demonic invocations. It is all so absurd that it seems to be a meeting place for a sect of fundamentalists under the effect of LSD. The Jim Jones People's Temple couldn't have had a better soundtrack, especially during the Jonestown massacre. Frightening and wonderful at the same time, the Z&A concert is a perfectly played bad trip. Oh yes! Because this schizophrenic frenzy amazes for how compact and fluid it sounds. Devastating power and groove, but also ability to build fascinating atmospheres. The band plays surgically, nonchalantly interweaving three-part choruses, even managing to enhance the splendid tracks of the first album, partially penalized by their extremely lo-fi production (except for Come On Down, whose new arrangement does not convince me 100%). Manuel Gagneux in particular is a versatile and really talented singer, with a unique sensitivity, perfectly at ease in the transformations to which his music compels him. A music with a strong personality, extremely original, that proves to be exciting also as a live act (and it was not at all obvious!). In the end, what could be more psychedelic than having managed to bring the songs of the United States black slaves into the cold ice deserts of Scandinavia? Unforgettable concert!

I end my evening at Canyon Stage, but I'm really too tired to be able to appreciate the music of Polish Sunnata. Their hypnotic litanies, guided by obsessive bass spirals, and alternated with walls of sound halfway between atmospheric sludge and Alice In Chains oblique melodies, shows a great potential that my exhausted body is not able to enjoy. For this reason I leave the stage before I listened to half their concert. I hope to have the chance to listen to them as they deserve in the future. Now it is time to recover my energies for tomorrow.
[R.T.]

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