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martedì 26 dicembre 2017

Top 5 Cover Artworks 2017


Our personal selection of cover artworks of 2017 albums, in alphabetical order:

  • Converge – The Dusk in Us (Design: Jacob Bannon)
  • Elder – Reflections of a Floating World (Artwork: Adrian Dexter)
  • Monolord – Rust (Cover: Arash Naghizadeh)
  • Motorpsycho – The Tower (Artwork Cover: Håkon Gullvåg)
  • Sólstafir ‎– Berdreyminn (Album Artwork: Adam Burke)
[E.R. + R.T.]


domenica 24 dicembre 2017

Godspeed You! Black Emperor – Luciferian Towers


Godspeed You! Black Emperor – Luciferian Towers
(Constellation, 2017)

L’assenza di una voce umana, la personalità dei singoli musicisti sacrificata all’insieme, e un corpo musicale non costituito da parti chiaramente definite e strutturate, bensì da un flusso in continua trasformazione, potrebbero ad un primo impatto indurre a considerare la musica dei Godspeed You! Black Emperor come un’entità astratta, fruibile solo dal punto di vista concettuale. Eppure la forza emotiva delle suites composte dalla band canadese nel corso della sua carriera ha una potenza evocativa che da sempre è stata in grado di suscitare immagini vivide (veri e propri film immaginari) nella mente dell’ascoltatore. Film i cui protagonisti sono l’uomo e i suoi conflitti. 

Nel suo magma a scorrimento lento, Luciferian Towers è una pellicola con un soggetto forte (la melodia), che si avventura temerario in vastissimi spazi solitari. Un soggetto nel quale l’ascoltatore non può non riconoscersi e dal quale non può non farsi guidare. La potenza, la tensione e l’imprevedibilità del disco precedente lasciano ora il posto ad una malinconica sensazione di pace, apparentemente statica per chi è abituato a certe sonorità. Ma è proprio in questo senso di attesa, squarciato dai feedback di chitarra e dalle coinvolgenti linee melodiche dei violini, che si nasconde la bellezza di questo album. Più che gridare alla rivolta contro i centri del potere economico occidentale (come sembrano alludere i titoli e le note del disco), i caldi riflessi di Luciferian Towers trasmettono la sensazione di un’umanità chiusa in un rifugio, pronta a sferrare un attacco che probabilmente non avverrà mai. Ad elevare questo sesto disco ai livelli dei precedenti lavori della band sono gli orizzonti sconfinati di Anthem for No State, nei quali si respira il vento caldo e sabbioso di una colonna sonora western di Morricone, immagine post apocalittica di una nuova umanità. Un disco che si dimostra il meno sorprendente della band, ma anche quello più coeso, semplice e - probabilmente - umano.
[R.T.]

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Godspeed You! Black Emperor – Luciferian Towers
(Constellation, 2017)

The absence of a human voice, the personality of the individual musicians sacrificed to the ensemble, and a musical body not made up of clearly defined and structured parts, yet a stream in continuous transformation, at first glance they could induce to consider Godspeed You! Black Emperor music as an abstract entity, accesible only from a conceptual point of view. Yet the emotional strength of the suites composed by the Canadian band during its career has got an evocative power that has always been able to arouse vivid images (real imaginary movies) in the mind of the listener. Movies whose main characters are man and his conflicts.

In its slow-flowing magma, Luciferian Towers is a film with a strong subject (the melody), which fearless ventures in vast solitary spaces. A subject in which the listener can not but recognize himself and from which he can not help to be guided. The power, the tension and the unpredictability of the previous album now give way to a melancholy sensation of peace, apparently static for those used to certain sounds. But it is precisely in this sense of waiting, torn by guitar feedbacks and engaging melodic lines of violins, that hides the beauty of this album. Rather than shouting at the revolt against the centers of Western economic power (as the titles and notes of the album seem to suggest), the warm reflections of Luciferian Towers convey the feeling of a humanity locked in a shelter, ready to launch an attack that probably will never take place. Raising this sixth album to the levels of the band's previous works are the boundless horizons of Anthem for No State, in which you can breathe the warm sandy wind of a Morricone western soundtrack, a post apocalyptic image of a new humanity. A record that proves to be the least surprising of the band, but also the most cohesive, simple and - probably - human.
[R.T.]

venerdì 22 dicembre 2017

Amenra – Mass VI


Amenra – Mass VI
(Neurot Recordings, 2017)

“Hai bisogno di qualcosa che sia disposto a prenderti per le braccia e aiutarti a combattere quel nemico invisibile. Questo è esattamente ciò che AMENRA intende essere. E sostiene di essere”. Queste le parole di Colin H. van Eeckhout all'Independent, anticipando l'uscita di Mass VI. Se questo sono gli Amenra, e se questo è vero anche per gli altri capitoli della serie Mass, è sicuramente con quest'ultimo album che questa sensazione si fa più viva, concreta e forte. Ogni racconto della serie è fotografia di un momento. Tragico. Personale, ma al tempo stesso condiviso e quindi collettivo. Quasi universale. E se catarsi e liberazione sono il “premio” alla fine di ciascun percorso inciso e raccolto nella durata di ogni singolo lp, in Mass VI questa sensazione è amplificata. L'obiettivo è pienamente raggiunto e superato. Dall'ascolto dell'album si esce più lievi e più forti al tempo stesso. 40 minuti che sono quasi una sinfonia. Un'opera che è colonna sonora e film al tempo stesso. 4 canzoni, più 2 interludi, per schiacciarti con lo sludge ed il post-hardcore più pesanti e violenti, e poi risollevarti con un post-rock orchestrale, onirico e visionario. E la voce di Colin H. van Eeckhout, fra straziante screaming e toccanti strofe pulite, è il Virgilio che accompagna dal più profondo degli Inferi al gradino più alto, e in piena luce, del Purgatorio. Un album che è pura emozione.
[E.R.]
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Amenra – Mass VI
(Neurot Recordings, 2017)

“You need something that is willing to pick you up by the arms and help you fight that invisible enemy. That is exactly what AMENRA aims to be. And claims to be.” These are Colin H. van Eeckhout words to the Independent, anticipating the release of Mass VI. If this are Amenra, and if this is true also for the other chapters of the Mass series, it is surely with this latest album that this sensation becomes more alive, concrete and strong. Each story in the series is a photograph of a moment. Tragic. Personal, but at the same time shared and therefore collective. Almost universal. And if catharsis and deliverance are the "reward" at the end of each path recorded and collected in the duration of each individual LP, in Mass VI this feeling is amplified. The goal is fully achieved and exceeded. Listening to the album you become lighter and stronger at the same time. 40 minutes that are almost a symphony. A work that is soundtrack and movie at the same time. 4 songs, plus 2 interludes, to crush you with the heaviest and most violent sludge and post-hardcore, then lifting you up with an orchestral, dreamlike and visionary post-rock. With his excruciating screaming and poignant clean verses, Colin H. van Eeckhout voice is the Virgil accompanying the listener from the depths of the Underworld to the highest step, in full light, of Purgatory. An album that is pure emotion.
[E.R.]

mercoledì 20 dicembre 2017

Sólstafir + Myrkur + Árstíðir – 01.12.2017 – Locomotiv Club (Bologna)

 

Sólstafir + Myrkur + Árstíðir – 01.12.2017 – Locomotiv (Bologna)

Il primo giorno del mese che porta al Natale ricevo forse il mio più bel regalo.

In apertura Árstíðir. Il trio islandese, essenzialmente acustico (tastiera/synth e due chitarre), è una vera e propria rivelazione. Quasi in punta di piedi, mi ritrovo nel mezzo di una foresta senza alberi, guidata da tre voci suggestive, che con i loro intrecci e metamorfosi mi accompagnano in un mondo lontano nello spazio e nel tempo. Spicca su tutti Ragnar Ólafsson: vero e proprio pianista classico, dotato di una voce di multiforme bellezza e potenza. Il loro mix di post rock e folk nordico è l'introduzione intima – e perfetta – per una serata che svelerà infine quanto calore si annida sotto queste vaste lande ghiacciate.

È poi il turno di Myrkur. Più elfo che strega, la cantante danese mi colpisce subito per la voce cristallina e da usignolo. Quasi accantonato il black metal atmosferico degli esordi, il set di stasera è incentrato sulle atmosfere nordic folk. Accompagnata da una band solida e compatta, prettamente metal, Myrkur incanta con la nitidezza della sua voce. Pochi i momenti in cui si lascia andare ad uno screaming graffiante e lancinante, in cui però colpisce per la sua naturalezza e versatilità. Grande prova live, che smentisce quei detrattori che parlavano di fenomeno commerciale costruito a tavolino.

Infine Sólstafir. Difficilmente imbrigliabile in un genere rigido e predefinito, la band di Reykjavík, originariamente black metal, spazia oggi su territori ampi e assolutamente personali, che travalicano i confini della loro desertica terra (di cui pure si nutrono) approdando sulle vaste praterie del continente americano. E il concerto di stasera è perfetta espressione di questo universo musicale. In un crescendo di intensità espressiva, il set dei Sólstafir si distingue non solo per capacità tecniche e compositive, ma anche per il denso flusso di suggestioni e sensazioni riversato sull’ascoltatore. Dal palco, la band dialoga costantemente con il suo pubblico. Ed in questo continuo scambio, Aðalbjörn Tryggvason spicca per le sue doti comunicative e di coinvolgimento. Sorta di Nick Cave dell’estremo nord, il leader della band islandese cattura non solo con la sua peculiare voce (squarciante, stridente e piena), ma anche con le sue parole, la sua gestualità, il suo scendere in mezzo al pubblico andando veramente e fisicamente incontro ad esso. Davvero emozionante. A pieno titolo nella mia personale classifica dei migliori concerti di quest'anno.
[E.R.]


 

 

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Sólstafir + Myrkur + Árstíðir – 12.01.2017 – Locomotiv Club (Bologna)

On the first day of the month leading up to Christmas, perhaps I receive my best present.

Árstíðir first of all. Essentially acoustic (keyboard/synth and two guitars), the Icelandic trio is a real revelation. Almost on tiptoe, I find myself in the middle of a forest without trees, guided by three suggestive voices, bringing me in a world far away in space and time through their interweavings and metamorphosis. Ragnar Ólafsson stands out above all: a true classical pianist with a voice of multifaceted beauty and power. Their mix of post rock and Nordic folk is the intimate - and perfect - introduction for an evening that will finally reveal how much heat nestles beneath these vast frozen lands.

Then Myrkur. More elf than witch, the Danish singer strikes me immediately for the crystalline nightingale voice. Almost set aside the atmospheric black metal of the beginnings, tonight's set focuses on Nordic folk atmospheres. Accompanied by a solid compact purely metal band, Myrkur enchants with the clarity of her voice. A few moments when she let herself go to a scathing excruciating screaming, in which however she is impressive for her naturalness and versatility. Great live show, which denies those detractors who were talking about a commercial phenomenon built around a table.

Finally Sólstafir. Hardly to be bridled in a rigid predefined genre, the band from Reykjavík, originally black metal, spans today on vast and absolutely personal territories, that go beyond the confines of their desert land (which whilst they feed on) landing on the vast prairies of the American continent. And tonight's concert is the perfect expression of this musical universe. In a crescendo of expressive intensity, Sólstafir set stands out not only for technical and compositional skills, but also for the dense stream of suggestions and sensations poured on the listener. From the stage, the band constantly talks with its audience. And in this continuous exchange, Aðalbjörn Tryggvason stands out for its communication and involvement skills. Sort of Nick Cave of the far north, the leader of Icelandic band captures not only with his distinctive voice (lacerating, strident and full), but also with his words, his gestures, his descent into the audience going truly and physically towards it. Really exciting. With full rights in my personal chart of 2017 best concerts.
[E.R.]

 



  



lunedì 18 dicembre 2017

1990. A Selection of 20 Albums.



1990. L'anno in cui i Sonic Youth aprono una crepa. Attraverso quella crepa la musica indipendente si avventura in un universo fino a quel momento sconosciuto. Prima che questa ferita faccia crollare il muro di separazione tra i due mondi, c'è il 1990. Un anno simbolo. Cesura fra due decenni tanto importanti, quanto diversi. Anche musicalmente. Nell'anno che fa da spartiacque con la sua cifra bella tonda, il confine fra i vari generi è davvero labile. Questi sono solo venti fra i molti album significativi usciti in questo millesimo. Come sempre sono stati scelti fra quelli che abbiamo e che abbiamo maggiormente ascoltato. E come si usa chiudere le serie, anche questa è aperta al classico finale: "to be continued..."

1990. The year Sonic Youth open up a crack. Through that crack independent music ventures into a universe unknown until then. 1990 is there, right before this wound leads to the collapse of the separation wall between the two worlds. A symbolic year. Break between two decades as much important as much different. Also musically. In the year that acts as a watershed with its beautiful round figure, the boundary between the various genres is really evanescent. These are just twenty of the many significant albums released in this year. As always, they were chosen from those we own and that we have listened to up to the point of wearing them out. And as series are usually closed by their authors, this is also open to the classic close: "to be continued..." 



[E.R. + R.T.]

venerdì 15 dicembre 2017

The Sonic Dawn - 24.11.2017 - Fuzz'N'Roll Fest - Cecina (LI)

 

The Sonic Dawn - 24.11.2017 - Fuzz'N'Roll Fest - Cecina (LI)

In una fredda serata di novembre, con cinquant’anni di ritardo, non è semplice trasportare il tuo pubblico nel cuore della summer of love californiana. Forse solo un gruppo che proviene dal freddo del Nord Europa, e che quindi è necessariamente costretto a dover immaginare le atmosfere di un’epoca che non ha vissuto e il contesto nel quale queste si sono realizzate, può essere così efficace da riuscire a farle provare ad un pubblico abituato alla musica del nuovo millennio. Questo gruppo sono i Sonic Dawn. In un ambiente raccolto e familiare la band danese libera i suoi sogni colorati. Pantaloni a zampa, camicie floreali, capelli lunghi e strumentazione vintage. I tre sono alieni caduti su un litorale deserto e desolato, reso ancor più surreale dai primi brividi dell’inverno. Eppure, così fuori contesto e fuori epoca, il loro blues morbido, ma non fragile, che si dilata in psichedelia senza mai varcare i confini dell’hard rock, riesce ad aprire le porte della percezione del poco numeroso, ma appassionato, pubblico. Una chitarra arpeggiata con le dita e un basso rotondo bilanciano una batteria fredda e nordica, ma non per questo rigida. Le melodie possiedono i colori cangianti dei 13th Floor Elevators e, cosi come quelle della band texana, sono ricoperte da una sottile polvere garage. Il trio, che ha da poco pubblicato il suo secondo album sotto Heavy Psych Sounds, dal vivo mostra una forza ipnotica che su disco si nasconde dietro il velo di un leggero rock psichedelico. I tre danesi vivono in un sogno del passato. E, almeno per stasera, ci portano con loro.
[R.T.]

 

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The Sonic Dawn - 11.24.2017 - Fuzz'N'Roll Fest - Cecina (LI)

In a freezing November night, fifty years too late, it's not easy to carry your listener in the heart of Californian summer of love. Maybe only a band coming from the cold northern Europe (and therefore necessarily forced to imagine both the atmospheres of an era it did not live and the context in which these took place) can be so effective as to make them real to an audience accustomed to the music of the new millennium. The Sonic Dawn are this band. In a cozy familiar venue the Danish band frees its colorful dreams. Flared trousers, floral shirts, long hair and vintage instrumentation. The three are aliens fallen on a desert desolate coast, made even more surreal by the first chills of winter. Yet, so out of context and out of time, their soft - yet not fragile - blues, expanding itself into psychedelia without ever crossing the boundaries of hard rock, manages to open the doors of perception of the small, but passionate, audience. A guitar played with fingers and a round bass guitar balance a cold (but not for this reason stiff) Nordic drums. Melodies have got the shimmering colours of 13th Floor Elevators and, like those of the Texan band, they are covered with a thin garage dust. The trio, which has recently released its second album under Heavy Psych Sounds label, shows a live hypnotic force that on recordings is hidden behind the veil of a light psychedelic rock. The three Danes live in a dream of the past. And, at least for tonight, they take us with them.
[R.T.]
  


mercoledì 13 dicembre 2017

Nevermore - Dreaming Neon Black


Nevermore - Dreaming Neon Black
(Century Media, 1999)

All play dead. Un suicidio apre le porte della disperazione e la tragedia distrugge ogni sogno per il futuro e ogni certezza con cui era stato costruito il passato. L'impotenza di fronte alla nostra fragilità. E la rabbia diventa l'unica, inutile, liberazione. Incubi ossessivi e ricorrenti in mezzo a delicati momenti di solitudine con i nostri propri fantasmi. Dreaming Neon Black è un concept album sul magnetismo dell'autodistruzione dopo la morte di ogni divinità. Deliberatamente teatrale nella sua interpretazione, Warrel Dane viene ispirato da una storia che lo ha coinvolto. E il suo impeto appassionato lo possiamo respirare in ogni canzone. Atmosfere gotiche, melodie acide e dissonanze stridenti sono protagoniste tanto quanto i riff furiosi ed intricati o i liquidi arpeggi che fanno di questo album un gioiello unico nella storia dell'heavy metal.
[R.T.]
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Nevermore - Dreaming Neon Black
(Century Media, 1999)

All play dead. A suicide opens wide the doors of desperation and the tragedy destroys every dream about the future and every certainty with whom the past had been built. Impotence facing our frailty. And rage becomes the only, useless, deliverance. Recurring obsessive nightmares amongst delicate moments of solitude with our own ghosts. Dreaming Neon Black is a concept album about self-destruction magnetism after the death of every God. Deliberately theatrical in his interpretation, Warrel Dane is inspired by a story that involved him. And his passionate impetus we can breathe in every song. Gothic atmospheres, acid melodies and grinding dissonances are protagonists as much as furious intricate riffs or liquid arpeggios making this album a unique jewel in heavy metal history.
[R.T.]

lunedì 11 dicembre 2017

Nick Cave & The Bad Seeds - The Good Son


Nick Cave & The Bad Seeds - The Good Son
(Mute, 1990)

Ascoltare un disco di Nick Cave significa ascoltare la storia della sua vita, le sue confessioni più intime, i suoi sogni più profondi. Per Cave, comporre significa venire a patti (o scontrarsi fino a farsi male) con sé stesso e con le proprie metamorfosi. Anche quando Cave non esplicita nelle sue canzoni il parallelo con la sua condizione personale, è sempre evidente quanto essa influenzi il processo creativo. Sul finire degli anni '80, dopo un periodo trascorso nel buco nero della droga, Cave si avvicina alla religione, abbandona Londra e Berlino e si rifugia in Brasile per comporre e registrare. Il Sole sudamericano, l'amore per una donna e una profonda immersione nella fede. Questi sciolgono le tensioni, la rabbia e il nervosismo dei dischi precedenti, liquefacendo le sferragliate rumorose in composizioni profonde e mature in cui archi e pianoforte donano un’inedita delicatezza alla musica oscura del cantautore australiano. La speranza e l’energia che Cave respira a contatto col popolo brasiliano (costretto a convivere con povertà inumana e conflitti sociali intollerabili) ha un potere catartico che lo porterà a donare una luce calda alle sue ballate dark. Attraverso alcuni dei brani più intensi della discografia del cantautore, The Good Son racconta la sua redenzione con profonda umanità, mischiando luce e ombra in una nuova inedita sfumatura.
[R.T.]
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Nick Cave & The Bad Seeds - The Good Son
(Mute, 1990)

Listening to one of Nick Cave albums is listening to the story of his life, his most intimate confessions, his deepest dreams. For Cave, composing means coming to terms (or colliding up to get hurt) with himselves and with his own metamorphosis. Even when Cave does not make explicit in his songs the parallel with his personal condition, it is always evident how much it influences the creative process. In the late 80s, after a period spent in the black hole of drug addiction, Cave approaches religion, leaves London and Berlin and takes refuge in Brazil to compose and record. The South American Sun, the love for a woman and a deep immersion in the faith. These melt the tensions, anger and nervousness of the previous albums, liquefying the noisy clashes in deep and mature compositions in which strings and piano give a new sensitivity to the dark music of the Australian singer-songwriter. The hope and the energy that Cave breathes in contact with Brazilians (people forced to live with inhuman poverty and intolerable social conflicts) has a cathartic power that will lead him to give a warm light to his dark ballads. Through some of the most intense passages of the songwriter's discography, The Good Son tells his redemption with profound humanity, mixing light and shadow in a new and unprecedented nuance.
[R.T.]

venerdì 8 dicembre 2017

Duel - Witchbanger


Duel – Witchbanger 
(Heavy Psych Sounds,2017)

A un solo anno dall'uscita dell'ottimo debut Fears of the Dead, i Duel pubblicano un altro album, degno erede del suo predecessore. Forse non così immediato e trascinante come l'opera prima del quartetto texano, Witchbanger ne riprende formula ed ingredienti, e si rivela come disco il cui impatto cresce progressivamente con il numero di ascolti. Fra canzoni di incredibile tiro (come la titletrack e l’opener Devil) e altre che si imprimono subito nella testa dell'ascoltatore (vedi il ritornello di Astrogipsy), la band di Austin affina il suo stile assestandosi sempre più sul filone hard rock di matrice settantiana (Thin Lizzy e MC5 su tutti), perdendo però qualcosa in psichedelia – componente che ora affiora soltanto a tratti e viene concentrata soprattutto nella finale (stupenda) Tigers and Rainbows. Anche in questo secondo album la voce calda e ruvida di Tom Frank è elemento distintivo della band, così come la sua chitarra – coadiuvata da una gran sezione ritmica - è la struttura fondamentale su cui la sfrenata Gibson di Jeff Henson (ora non più solo produttore della band, come nel primo album) costruisce fraseggi ed assoli che sono l’altro punto di forza di queste 8 canzoni. In soli 12 mesi, un album che è conferma del valore dei Duel. 
[E.R.]
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Duel – Witchbanger
(Heavy Psych Sounds, 2017)

Just one year after the release of the excellent debut Fears of the Dead, Duel release another album, a worthy successor to its predecessor. Perhaps not as immediate and enthralling as the first work of the Texan quartet, Witchbanger uses the same formula and ingredients, revealing itself as a record whose impact grows progressively with the number of plays. With songs of incredible groove (like the titletrack and the opener Devil) and others that get immediately impressed in the head of the listener (just think about the refrain of Astrogipsy), the band from Austin refines his style settling more and more on the 70s hard rock current (Thin Lizzy and MC5 above all), yet losing something in psychedelia - component that now only emerges at times and is concentrated mainly in the final (awesome) Tigers and Rainbows. Also in this second album Tom Frank warm rough voice is a distinctive element of the band, as well as his guitar - together with a great rhythm section - is the fundamental structure on which Jeff Henson (now not only just producer of the band, as in the first album) wild Gibson builds phrasings and solos that are the other point of these 8 songs. In just 12 months, an album that is confirmation of Duel great value.
[E.R.]

mercoledì 6 dicembre 2017

Zu – 23.11.2017 – Deposito Pontecorvo (Pisa)


Zu – 23.11.2017 – Deposito Pontecorvo (Pisa)

Dopo aver amato tanto intensamente, una cocente delusione brucia come un tradimento ed è umano trasformare l’amore in odio. Una seconda possibilità non la si nega a nessuno, però. Soprattutto agli Zu. Un tempo (2005/2006) gli Zu erano il mio gruppo live per eccellenza e collezionavo i loro concerti come figurine. Il loro math rock pattoniano, ipercinetico e nevrotico, via via sempre più rumoroso e tendente ad un noise incontrollato, dal vivo era trascinante ed esaltante. Dei veri animali da palco, che su disco non riuscivano a trasportare quella furia e quella voglia di spostare i confini sempre un po’ più in là, così tipiche dei loro concerti (almeno fino a Carboniferous, l’unico album che a mio parere riesce a cogliere un barlume di quella creatività dirompente). Poi l’addio di Jacopo Battaglia e lo scioglimento. Nel 2014 la band si riforma con Gabe Serbian dei The Locust alla batteria. Torno a vederli dal vivo, con l’aspettativa di chi esce con la vecchia fidanzata dopo tanti anni. La delusione è enorme. Il trio ha abbandonato ritmo e groove in favore di droni stordenti e ossessivi, noise disturbante, e una batteria gelida (per quanto tecnicamente eccelsa). La ex fidanzata era diventata un cesso.

Stasera vengono a farmi visita a due passi da casa. Non posso non concedere loro una seconda possibilità. A maggior ragione perché alla batteria è subentrato Tomas Järmyr (già visto all’opera una ventina di giorni fa, con i Motorpsycho).

Superato lo shock per i volumi mastodontici (soprattutto del sax) che fagocitano la batteria (almeno per un terzo di concerto), mi ritrovo dentro ad una versione industrial, pesantissima, di Red dei King Crimson. Un muro di suono schiacciante in cui si percepiscono i ritmi dei tempi che furono, anche se ora sono diventati pesantissimi, quadrati e gelidi, e si fanno largo a fatica nel magma sonoro. Tecnicamente straordinario, ma lontano anni luce dalla personalità imprevedibile di Battaglia, il tocco quasi prog metal di Järmyr è perfetta rappresentazione degli Zu attuali. Freddi sperimentatori ai confini della sostenibilità uditiva, e non più incontenibili e tumultuosi artisti da palco di centro sociale, in continuo fermento creativo. Una parte dell'energia impetuosa che me li aveva fatti amare sembra riaffiorata e rimodellata verso la pesantezza più estrema, ma troppo presto si inabissa in un oceano di caos che va al di là delle mie capacità di ascolto.

Quando Massimo Pupillo getta il pubblico in balia di un suo assolo di basso delirante e violentissimo, a volume inumano, si percepisce quanto il noise, quello autentico, sia una sfida ad ogni convenzione armonica posseduta dall’ascoltatore. I timpani sono trapanati da ondate di feedback, e costanti bordoni ultrabassi riempiono ogni spazio. Gli Zu non hanno perso la voglia (e la capacità) di spostare i confini oltre i limiti conosciuti, ma a tratti faccio sinceramente fatica a seguire la direzione da loro tracciata.

La mia ex ragazza si è messa a dieta rispetto all’ultima volta, e anche se mi ha assordito nuovamente, ha recuperato una parte del fascino perduto. Ma è troppo tardi per tornarci insieme. Ormai siamo entrambi due entità troppo diverse, difficilmente conciliabili. Conserverò il ricordo del sudore che abbiamo speso insieme, in quei concerti dei tempi dell’Università, con un filo di nostalgia.
[R.T.]

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 Zu – 11.23.2017 – Deposito Pontecorvo (Pisa)

After such an intense love, a scorching disappointment burns like a betrayal and it is human to turn love into hate. A second chance is not denied to anyone, anyway. Especially to Zu. Once upon a time (2005/2006) Zu were my favourite live band, and user to collect their concerts. Their Pattonian, hyperkinetic and neurotic math rock, gradually louder and louder and tending to an uncontrolled noise, was enthralling and exciting, particularly live. Born musicians, on records they were unable to express that fury and that desire to move the boundaries always a bit further, so typical of their concerts (at least till Carboniferous, in my opinion the only album able to catch a glimpse of that disruptive creativity). Then the farewell of Jacopo Battaglia and the dissolution. In 2014 the band reformed with Gabe Serbian of The Locust on drums. I saw them live once again, with the expectation of who meets his ex girlfriend after so many years. The disappointment is gigantic. The trio has abandoned rhythm and groove in favour of stinging and obsessive drones, disturbing noise, and cold (however technically excellent) drums. The ex girlfriend had become a coyote-ugly.

Tonight they come to visit me a few steps from home. I have to grant them a second chance. Especially because now they have a new drummer: Tomas Järmyr (already seen twenty days ago, with Motorpsycho).

Overcome the shock for mammoth volumes (especially the sax) swallowing drums (at least for a third of the concert), I find myself in an industrial, really heavy, version of Red (King Crimson). A wall of overwhelming sound in which you can perceive the rhythms of the past, even if these have become ultra-heavy, squared and cold, and they push through their way with difficulty in the magma of sound. Technically extraordinary but light years away from Battaglia's unpredictable personality, Järmyr's almost prog metal touch is a perfect representation of the current Zu. Cold experimenters on the borders of auditory sustainability, and no longer uncontrollable and tumultuous undergorund artists, in continuous creative ferment. A part of the impetuous energy that had made me love them now seems resurfaced and reshaped towards the most extreme heaviness, but too soon it sinks into an ocean of chaos that goes beyond my listening skills.

When Massimo Pupillo threw the audience at the mercy of one of his raving and hyperviolent solos, at inhuman volume, we perceive how the noise, the authentic one, is a challenge to every harmonic convention possessed by the listener. Eardrums are drilled by waves of feedbacks, and constant ultra-low drones fill every space. Zu have not lost the desire (and the ability) to move the boundaries beyond the known limits, but at times I sincerely struggle to follow the direction they traced. 

My ex girlfriend had been on a diet since last time, and even though she deafened me once again, she recovered some of the lost charm. But it's too late to come back together. Now we are too different entities, difficult to reconcile. I will keep the memory of the sweat that we spent together in those concerts of my University days, with a touch of nostalgia.
[R.T.]

domenica 3 dicembre 2017

Crystal Fairy - Crystal Fairy


Crystal Fairy – Crystal Fairy
(Ipecac Recordings, 2017)

Con il suo tipico senso dell’ironia, Buzz Osborne dice di non concepire chi si limita a lavorare 8 ore al giorno, gettando il resto della giornata in futili passatempo. Per quanto questa sia una delle sue tipiche prese per il culo, è innegabile che Buzz sia uno stakanovista spaventoso. Prima o poi la sua strada doveva incrociarsi con quella di Omar Rodriguez-Lopez, una delle poche persone in grado di stargli alla pari. Questa collaborazione necessita di altri musicisti anfetaminici, a conoscenza dei ritmi di lavoro imposti dai due capelloni con il cespuglio in testa. Ecco che Dale Crover e Teri Gender Bender (Le Butcherettes) entrano in catena di montaggio. In un disco in cui Omar suona il basso come una chitarra, i due Melvins macinano come schiacciasassi e Teri sbraita come una pazza nevrotica, si capisce subito quanto questi quattro siano tutt’altro che semplici operai del rock alternativo obbligati a timbrare un cartellino. La loro passione per ciò che fanno si percepisce dall’energia che sgorga incontenibile da ogni crepa aperta nella struttura delle canzoni, le quali - per quanto diritte e sparate in faccia - sono incapaci di contenere la frenesia di questi musicisti, e suonano costantemente in bilico tra tensione ed esplosione. In particolare la vena lunatica di Teri è perfetta rappresentazione di questi contrasti e, sotto il vestito da isterica riot grrrl, in realtà nasconde un lato perversamente sensuale (quasi dark) oltre che una versione luciferina di Robert Plant. Le melodie, la cui imprevedibilità è merito soprattutto di Teri, hanno quel sapore allucinogeno che si assaggia nel bel mezzo dei sogni (o degli incubi); i riff, massicci e pesanti, possiedono la potenza dei Melvins dell’epoca Houdini e Stoner Witch. Lavorare tanto mantiene giovani. Sempre che, come lavoro, si faccia il rocker.
[R.T.]
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Crystal Fairy – Crystal Fairy
(Ipecac Recordings, 2017)

With his usual sense of irony, Buzz Osborne says he does not conceive the ones who work only 8 hours a day, throwing the rest of the day into a futile hobby. Although this is one of his typical mockery, it is undeniable that Buzz is an incredible workaholic. Sooner or later his path has to cross with Omar Rodriguez-Lopez's one, one of the few people who can keep up with him. This collaboration requires other hyper musicians, aware of the work pace imposed by the two bushy heads. Here Dale Crover and Teri Gender Bender (Le Butcherettes) come into the production line. On a record in which Omar plays the bass as a guitar, the two Melvins grind as a steamroller and Teri screams like a mad neurotic, it is clear that these four are not simple workers of the alternative rock world forced to clock in. The passion for their job is perceived thanks to the energy flowing uncontrollable from any crack in the structure of the songs, which - however direct and explosive - are unable to contain the energy of these musicians and constantly sound in balance between tension and explosion. Particularly, Teri's lunatic mood is a perfect representation of these contrasts, and under the hysterical riott grrrl dress, she actually conceals a perverse sensual (almost dark) side, as well as a luciferin version of Robert Plant. The melodies, whose unpredictability is mainly due to Teri, have that hallucinogenic flavour that is felt in the midst of dreams (or nightmares); massive and heavy riffs own the power of Melvins of Houdini and Stoner Witch era. Working so much keeps young. Well, as a job, you do the rocker.
[R.T.]