Nebula - 03.10.2019 - The Cage (Livorno)
Per raccontare questa storia parto dal finale. Uno di quei finali tristi che il cinema americano non avrebbe mai il coraggio di mettere in scena. Gli americanissimi Nebula, dopo poco più di un'ora di concerto, tornano sul palco acclamati tiepidamente dai pochi presenti e si preparano per il bis in un locale i cui ampi spazi vuoti ricordano i deserti americani dei film western. Eddie Glass prende la sua chitarra, accenna un riff, ma qualcosa non funziona. Cerca di capire come mai il suo amplificatore non suoni come dovrebbe, chiede aiuto, ma non ottiene risposta. Dalle profondità del Cage nessuno - assolutamente nessuno - si muove. Né fonico, né tecnico, né membri dello staff del locale. Nessuno. Glass, confuso, gira a vuoto sul palco. In un silenzio surreale chiede ancora che qualcuno venga a dargli una mano. Si percepisce il verso degli avvoltoi che volano sopra la carcassa dei Nebula, in questo deserto. Glass e i suoi compagni si arrendono. Non ci sarà nessun duello finale in stile western. Nessuno arriva in loro soccorso. Il deserto li inghiotte e li fa sparire nel silenzio generale.
Ma come era iniziata questa storia? Lentamente, come una rilassata cavalcata tra i cactus. Con inattesa lentezza i Nebula hanno iniziato il loro concerto, jammando, lasciandosi andare ad un naturale crescendo. Durante i primi minuti la band si è dovuta mettere a fuoco. Poi si è lanciata a galoppo nei sabbiosi deserti del suo stoner rock, per raggiungere quella torre di lancio nascosta nel canyon, dalla quale raggiungere le stelle. La traiettoria del viaggio cosmico non è stata lineare. Né la velocità è stata costante. Riffoni propulsivi hanno spinto l'astronave a velocità supersonica, ma spesso si sono poi frammentati in un pulviscolo di assoli. Una nebulosa di gas e polveri psichedeliche in cui è difficile trovare l'orientamento. Anzi, direi che è proprio sbagliato cercarlo. Perché Eddie Glass (ormai unico membro storico della band, dopo l'abbandono del bassista Tom Davies) suona istintivamente, senza alcun progetto di ingegneria aerospaziale alle spalle. Nonostante la batteria potentissima e quadrata di Michael Amster (già membro degli psichedelici Blaak Heat) mantenga la traiettoria, Glass dirige la navicella spaziale in base al momento, al "qui e ora". Questo rende la musica complessa, a tratti confusa, ma anche genuina, vera, imprevedibile e coinvolgente. Basta abbandonarvisi, e percepire l'emotività e il calore della voce di Glass (una versione ubriaca di Mark Arm dei Mudhoney) o la bruciante urgenza espressiva dei suoi assoli. Alla fine la navicella si perde in una tempesta di asteroidi, e atterra nel deserto desolato che raccontavo all'inizio. Un finale triste, certo, ma forse anche il più naturale, vista l'imprevedibilità del pilota e l'inesistente spirito di collaborazione (anzi, direi proprio di disinteresse) del pianeta sul quale è atterrato.
[R.T.]
***
Nebula - 10.03.2019 - The Cage (Livorno)
To tell this story I begin from the end. One of those sad endings that American cinema would never have the courage to stage. After a one hour concert, Nebula return on stage mildly acclaimed by the few present and prepare themselves for the encore in a venue whose large empty spaces recall the American deserts of western movies. Eddie Glass takes his guitar, outlines a riff, but something doesn't work. He tries to understand why his amp doesn't sound like it should, he asks for help, but he gets no answer. From the depths of the Cage nobody - absolutely nobody - moves. Neither the sound engineer, nor members of the staff of the venue. Nobody. Confused, Glass wanders on stage. In a surreal silence he still asks for someone to come and give him a hand. It's like feeling vultures flying over Nebula carcass in this desert. Glass and his fellows surrender. There will be no final duel in western style. Noone comes to their rescue. The desert swallows them up and makes them disappear in general silence.
But how did this story begin? Slowly, like a relaxed ride among cacti. With unexpected slowness Nebula started their concert, jamming, letting themselves go into a natural crescendo. During the first few minutes the band had to autofocus. Then they galloped off into the sandy deserts of their stoner rock, to reach that launching tower hidden in the canyon, from which to reach the stars. The trajectory of the cosmic journey was not linear. Nor constant was the speed. Propulsive riffs pushed the spaceship to supersonic speed, but often they fragmented themselves into a dust of solos. A nebula of gas and psychedelic dust in which it is difficult to be orientes. Actually, I'd say it's wrong to look for a direction. Because Eddie Glass (now the only historical member of the band, after the departure of bassist Tom Davies) plays instinctively, without any aerospace engineering project behind him. Though Michael Amster's (former member of the psychedelics Blaak Heat) powerful and precise drums maintains the trajectory, Glass directs the spaceship looking at the moment, at the "here and now". This makes the music complex, sometimes confused, but also genuine, true, unpredictable and engaging. Just abandon yourself, and perceive the sensitivity and warmth of Glass's voice (a drunken version of Mark Arm, of Mudhoney) or the burning expressive urgency of his solos. In the end the spaceship gets lost in a storm of asteroids, and it lands in the desolate desert that I told you at the beginning of this story. A sad end, certainly, but perhaps also the most natural one, given the unpredictability of the pilot and the nonexistent spirit of collaboration (or rather, I would really say, of lack of interest) of the planet on which he landed.
[R.T.]
Nessun commento:
Posta un commento