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lunedì 16 marzo 2020

Desertfest Antwerp 2019 - Day 3


Desertfest Antwerp 2019 - Day 3
[Sleep + Eyehategod + Monkey3 + Crypt Trip + Wolvennest + Sâver]


Uno degli aspetti più interessanti dei festival come il Desertfest è la possibilità di scoprire nuove band, magari non ancora uscite dall’ambito underground. Eppure per questo ultimo giorno la mia scelta ricade quasi sempre su band conosciute, e già viste dal vivo. L’effetto sorpresa me lo serbo solo per la band di apertura. Ma che sorpresa!

La musica dei norvegesi Sâver si abbatte come un’esplosione sul Canyon Stage. Una profondità di suono spaventosa trasforma la sala dal soffitto basso un vero e proprio tunnel verso un’altra dimensione, e ben presto mi ritrovo risucchiato dalla forza centripeta delle distorsioni. Le atmosfere evocate dal trio sono quelle post apocalittiche care agli Amenra, in cui urla strazianti e dissonanze acide assumono un potere catartico e liberatorio, anziché opprimente o disturbante. Sicuramente la scoperta più interessante di questa edizione!

Entro poi nel Desert Stage dove i Wolvennest hanno appena iniziato il loro rituale. Ma prima ancora di trovarmi dentro la grande sala, l’odore dell’incenso mi fa capire che la cerimonia officiata dalla band belga sarà in grande stile. Candelabri, teschi, e abiti di scena fanno da contorno alla loro musica cosmica, che pare una vera e propria messa funebre di un altro universo. La voce di Shazzula è eterea e ondeggia in mezzo alla tempesta generata dalle tre chitarre, sorta di post black metal psichedelico dall’incedere rallentato. Una cattedrale grandiosa come il palco principale amplifica la profondità della loro musica, anche se l’atmosfera criptica del loro concerto del 2016 nel Canyon Stage rimane imbattuta.

Per la prima volta in questa edizione, entro nel Vulture Stage per il concerto dei Crypt Trip. E ammetto che, in quattro edizioni, mai avevo visto la saletta piccola stracolma come stavolta. Come dimostra la band americana con il suo strepitoso concerto, l’hype è ampiamente giustificato. Senza l’apporto del chitarrista aggiuntivo alla slide guitar - che aveva reso il concerto di Cascina Bellaria più morbido, evocando atmosfere degne dei grandi spazi americani - stasera la band (in trio) suona essenziale e diretta. Al galoppo lungo le praterie, senza troppe riflessioni romantiche di fronte ai tramonti che illuminano i canyon, e senza pause nei saloon che si incontrano lungo la strada. Con un’energia incontenibile che straborda da ogni fraseggio di chitarra e da ogni fill carambolesco di batteria, i Crypt Trip superano se stessi e regalano uno dei migliori concerti del festival! Anche la voce di Ryan Lee è caldissima e decisamente più robusta della volta precedente. Ma ciò che rende i Crypt Trip una perfetta band dal vivo è la batteria di Cameron Martin: un’intera mandria di cavalli allo stato brado che travolge qualsiasi cosa incontri, cambiando continuamente direzione senza mai perdere groove! Ginger Baker sarebbe stato fiero di lui, e della sua incredibile band, in grado di risollevare l’hard rock di fine anni '60 anche a mezzo secolo di distanza! Straordinari!

Dopo l’intimità del concerto acustico di ieri, oggi i Monkey3 ci regalano uno spettacolo completamente diverso. Ciò che ieri era raccolto e gelosamente custodito, oggi esplode all’esterno. I colori caldi del giorno precedente diventano gelidi, come se in una familiare stanza con camino avessimo aperto la finestra per uscire fuori a guardare le stelle. Ci si sente più soli di fronte alla grandiosità elettrica di stasera che nella confidenziale versione acustica di ieri. E’ splendido perdersi in questa vastità strumentale, che genera arcobaleni sonori resi ancora più luminosi dalle proiezioni spaziali e dagli effetti di luce e fumo che avvolgono il palco più grande del Trix. I brani di Sphere (ultimo disco della band) acquistano una grandiosità ancora più marcata di quanto avvenga nella versione in studio. Una fantascienza epica e maestosa che non disdegna enormi esplosioni di volume, tra i tanti passaggi melodici ed atmosferici. I Monkey 3 al massimo del loro splendore.

Se i Monkey 3 ci hanno offerto caramelle colorate per approdare su un qualche universo parallelo senza eccedere neanche troppo con la quantità di allucinogeni, gli Eyehategod ci offrono eroina ed eccedono eccome, catapultandoci nei più lerci e malati bassifondi di New Orleans. In mezzo alla sporcizia delle distorsioni, e agli aghi infetti di feedback, manca però qualcosa. Jimmy Bower non è sul palco. Si dice che un’operazione al braccio lo abbia costretto ad abbandonare il tour, ma al suo posto c’è un gradito ritorno: Brian Patton. Il chitarrista, che aveva abbandonato la band l’anno scorso, torna per infliggerci una serie di riff deviati e acidi, che perdono parte del grasso e dell’alcol sudato dalla chitarra di Bower, ma acquistano quella spiacevole sensazione di ferro che si sente in bocca dopo essersi spaccati un labbro. Più rugginosi e stridenti che mai, gli Eyehategod ci regalano un concerto di depravazione e sgradevolezza, grazie anche alla tossica ma, come sempre, impeccabile prestazione vocale di Mike Williams. Resta l’amarezza di non riuscire più a vederli in formazione completa con due chitarre (nel 2018 li vidi con Bower ma senza Patton). Del resto non si può pretendere che il caos e la malattia che regnano nella loro musica non si ripercuotano sulle loro vite. Incurabili!

Il gran finale del festival è nelle mani della band che, più di ogni altra, è in grado di rappresentare il passato e, al tempo stesso, il presente, della musica suonata in questi 3 giorni: gli Sleep. Per farci smaltire i postumi dell’overdose di feedback del concerto degli Eyehategod, la band di Matt Pike ci offre una nebbia di basse frequenze. Una nuvola di fumo estremamente densa, ma in grado di esprimere forza propulsiva, come dimostra l’iniziale Marijuanaut's Theme, il cui groove - inedito nello stagnante e sovraffollato ambiente sludge - è una sorta di vento caldo in grado di spostare anche le dune più gigantesche. In un Desert Stage stracolmo, gli Sleep riescono ad esprimere ciò che il concerto di Bologna di quattro giorni prima aveva appena fatto intuire. La loro musica è un elefante che si muove a passo lento e pesante, ma che possiede elasticità ed agilità. Anche quando i riff sono rallentati più di quanto avvenga nelle versioni in studio, e affoghiamo nelle sabbie mobili delle distorsioni, è impossibile non percepire il movimento che scorre sotto di noi, probabilmente generato dagli enormi vermi delle sabbie di Dune (anche se parte del merito credo debba essere riconosciuto alla batteria di Jason Roeder, in realtà!). Suoni molto più potenti e avvolgenti e una band più carica (Al Cisneros canta in modo molto più cattivo, meno narcotizzato) rendono finalmente giustizia alla loro musica. Non credo che esista modo migliore per chiudere un festival stoner del riff di Dragonaut. Indimenticabile!

Dopo un finale di questo livello, attendo con ansia l’inizio del mio quinto Desertfest Antwerp! Certo che anche la prossima volta saprà stupirmi, facendomi conoscere nuove band e valorizzando quelle già ascoltate, ma soprattutto facendomi vivere tre giorni al di fuori del tempo e dello spazio, in una sorta di paradiso per appassionati di heavy psych!
[R.T.]

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Desertfest Antwerp 2019 - Day 3 [Sleep + Eyehategod + Monkey3 + Crypt Trip + Wolvennest + Sâver]


One of the most interesting aspects of festivals such as Desertfest is the chance to discover new bands, perhaps not yet emerged from the underground. Yet for this last day my choice almost always falls on known bands, already seen live. Today the only surprise effect for me is with the opening band. But what a surprise!

The music of the Norwegians Sâver hits like an explosion on the Canyon Stage. A frightening depth of sound transforms the low-ceilinged room into a real tunnel to another dimension, and soon I find myself sucked in by the centripetal force of the distortions. The atmospheres evoked by the trio are the post apocalyptic ones dear to Amenra, in which excruciating screams and acid dissonances assume a cathartic and liberating power, rather than an oppressive or disturbing one. Certainly the most interesting discovery of this edition!

Then I entered the Desert Stage where Wolvennest have just started their ritual. But even before being inside the great hall, the smell of incense makes me understand that the ceremony officiated by the Belgian band will be magnificent. Candelabras, skulls, and stage clothes surround their cosmic music, which looks like a real funeral mass from another universe. Shazzula's voice is ethereal and sways in the middle of the storm generated by the three guitars, a sort of psychedelic post black metal with a slowed pace. A cathedral as grand as the main stage amplifies the depth of their music, although the cryptic atmosphere of their 2016 concert on the Canyon Stage remains undefeated.

For the first time in this edition, I enter the Vulture Stage for Crypt Trip concert. And I admit that, in four editions, I had never seen the small room full to the brim as this time. As the American band shows with its amazing concert, the hype is widely justified. Without the contribution of the additional guitarist with the slide guitar - which had made Cascina Bellaria concert softer, evoking atmospheres worthy of the great American spaces - tonight the band (as a trio) sounds essential and direct. Galloping along the prairies, without too many romantic reflections in front of the sunsets illuminating the canyons, and without pauses in the saloons they meet along the way. With an irrepressible energy overflowing from every phrasing of guitar and from every funambulistic drum fill, Crypt Trip overcome themselves and play one of the best concerts of the festival! Ryan Lee's voice is also really warm and much more robust than the last time I saw them live. But what makes Crypt Trip a perfect live band is Cameron Martin's drum: an entire herd of wild horses overwhelming anything it encounters on its way, constantly changing direction without ever losing groove! Ginger Baker would have been proud of him, and his incredible band, able to revive late 60s hard rock even half a century later! Extraordinary!

After the intimacy of yesterday's acoustic concert, today Monkey3 plays us a completely different show. What was collected and jealously guarded yesterday, today explodes outside. The warm colors of the previous day become now icy, as if in a familiar room with a fireplace we had opened the window to go outside to look at the stars. We feel more alone in front of tonight's electric grandeur than in yesterday's confidential acoustic version. It is amazing to get lost in this instrumental vastness, which generates sound rainbows made even brighter by the space video projections and the effects of light and smoke that envelop Trix largest stage. Songs from Sphere (the latest album of the band) acquire an even more marked grandeur than in the studio version. An epic and majestic science fiction that does not mind huge explosions of volume, among the many melodic and atmospheric passages. Monkey 3 at their peak.

If Monkey 3 offered us coloured candies to land on some parallel universe without exceeding too much with the amount of hallucinogens, Eyehategod offer us heroin and they go too far, catapulting us into the dirtiest and sickest slums of New Orleans. In the midst of the dirt of the distortions and the feedback needles, something is missing. Jimmy Bower is not on stage. An arm operation is said to have forced him to abandon the tour, but in his place there is a welcome return: Brian Patton. The guitarist, who had left the band last year, returns to inflict on us a series of deviant acid riffs, which lose some of the fat and alcohol sweated by Bower's guitar, but acquire that unpleasant feeling of iron in mouth you usually feel after splitting a lip. More strident and rusty than ever, Eyehategod play a concert of depravity and unpleasantness, thanks also to Mike Williams' toxic but, as always, impeccable vocal performance. The bitterness of not being able to see them with their full lineup with two guitars remains (in 2018 I saw them with Bower, but without Patton). After all, it cannot be expected that the chaos and disease reigning in their music do not affect their lives. Incurable!

The grand finale of the festival is entrusted to the band which, more than any other, is able to represent the past and, at the same time, the present, of the music played in these 3 days: Sleep. To get rid of the aftermath of the feedback overdose of Eyehategod concert, Matt Pike's band offers us a fog of low frequencies. An extremely dense cloud of smoke, yet capable of expressing propulsive force, as evidenced by the initial Marijuanaut's Theme, whose groove - unprecedented in the stagnant and overcrowded sludge environment - is a sort of warm wind capable of moving even the most gigantic dunes. In a jam-packed Desert Stage, Sleep managed to express what their concert in Bologna four days before had just hinted at. Their music is an elephant that moves slowly and heavily, but which has elasticity and agility. Even when riffs have slowed down more than their studio versions, and we drown in the shifting sands of the distortions, it is impossible not to perceive the movement that flows below us, probably generated by the huge worms of Dune sands (although part of the merit I think it must be recognized on Jason Roeder's drums, actually!). Much more powerful and enveloping sounds and a more motivated band (Al Cisneros sings much more evil and less narcotized) finally do justice to their music. I don't think there is a better way to close a stoner festival than Dragonaut riff. Unforgettable!

After a finale of such a high level, I look forward to the start of my fifth Desertfest Antwerp! Sure that also next time it will amaze me, introducing me to new bands and enhancing those ones I already listened to, but above all making me live three days out of time and space, in a sort of paradise for heavy psych fans!
[R.T.]


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