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lunedì 26 febbraio 2018

Pearl Jam - Ten


Pearl Jam - Ten 
(Epic, 1991)

I semi della musica dei Pearl Jam erano nascosti nel ventre dei Mother Love Bone. Morto Andrew Wood, la pianta dovette crescere in un'altra direzione, poiché un'epoca era giunta al suo termine. Gossard e Ament decisero di ripartire da zero, con un nuovo chitarrista (McCready). Incontrato Vedder, la band riunì le sue differenti anime in uno scantinato, trascinata da una straripante creatività che ricordava lo spirito del rock anni '70. Le radici dei Pearl Jam affondano nel misticismo dei Led Zeppelin, nell'energia degli Who, nelle visioni psichedeliche dei Doors e nell'intimità di Neil Young, ma anche nell'accecante ipnosi dei Jane's Addiction. I suoi rami si protendono in cerca di una poetica sofferta e meditativa, lontana dalla musica degli anni '80. Ten è una reinterpretazione moderna dell'hard rock settantiano, una raccolta di storie di perdenti, spirituali ed intime, raccontate dalla voce magnetica di Eddie Vedder. La voce di una generazione che ammette la propria vulnerabilità.
[R.T.]
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Pearl Jam - Ten
(Epic, 1991)

Seeds of Pearl Jam music were hidden in Mother Love Bone womb. When Andrew Wood died, the plant had to grow in a different direction, because an era was over. Gossard and Ament decided to restart from scratch, with a new guitar player (McCready). Met Vedder, the band brought together its different souls in a basement, dragged by an overflowing creativity, reminiscent of 70s rock spirit. Roots of Pearl Jam plant sink in Led Zeppelin mysticism, in The Who energy, in The Doors psychedelic visions and in Neil Young intimacy, but also in Jane’s Addiction dazzling hypnosis. Its branches reach out in search of a meditative and suffered poetic, far away from 80s music. Ten is a modern reinterpretation of 70s hard rock, a collection of spiritual and intimate losers’ stories told by magnetic Vedder voice. The voice of a generation that admits its own vulnerability.
[R.T.]

venerdì 23 febbraio 2018

['selvǝ] - DOMA


['selvǝ] - DOMA
(2018, Overdrive Records, Shove Records)

Due soli brani per il terzo lavoro dei lodigiani ['selvǝ]. Se possibile ancora più intimo ed introspettivo dei precedenti due album, DOMA parte con un intro onirico, sospeso, per poi sfociare in un muro di suono distorto e stridente, scream vocals e furia cieca. Melodie (s)torte ed estremamente dirette al tempo stesso. Su di una batteria tipicamente black-metal, satura fino al punto di non ritorno, chitarra e basso costruiscono melodie dal sapore più post hardcore, a tratti blackgaze. Vi è un perfetto equilibrio fra oscurità e luce: si è accecati da entrambe, e si riesce a vedere solo attraverso i momenti di crepuscolo. Rispetto al precedente eléo, però, la sensazione è che l'ago della bilancia si stia spostando verso il mondo dell'ombra - anche se il finale del secondo brano (joy) sembra poi portare ad una nuova schiarita, ad una pausa di serenità.  In DOMA le composizioni si espandono quanto alla durata, ma si asciugano quanto alla forma e agli arrangiamenti. Si tende ad un'essenzialità carica di emotività. Per sottrazione, si accresce la forza espressiva di una band che già attraverso i precedenti lavori (e dal vivo) aveva fatto di questa caratteristica uno dei suoi tratti distintivi, nonché uno dei suoi punti di forza. Giunti alla terza tappa del loro percorso i ['selvǝ] sembrano avere ben chiaro il percorso che stanno seguendo, e la loro bussola sembra indirizzarli sempre più verso la loro mèta.
[E.R.]
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['selvǝ] - DOMA
(2018, Overdrive Records, Shove Records)

Only two tracks for the third work by ['selvǝ], from Lodi. If possible even more intimate and introspective than the previous two albums, DOMA starts with an oneiric suspended intro, to then flow into a distorted and strident wall of sound, scream vocals and blind fury. Crooked melodies, yet extremely direct at the same time. On typically black-metal drums, saturated to the point of no return, guitar and bass build melodies with a more post-hardcore, at times blackgaze, flavour. There is a perfect balance between darkness and light: you are blinded by both, and you can only see through the twilight moments. Compared to the previous eléo, however, you got the feeling of a shift towards shadow - even if the ending of the second song (joy) seems to lead to a new brightening up, to a pause of serenity. In DOMA compositions expand with regard to duration, but they dry out with regard to form and arrangements. There is a tendency towards an essentiality full of emotionality. By subtraction, it is increased the expressive strength of a band which - already through the previous works (and concerts) - made this characteristic one of its distinguishing features, as well as one of its strengths. Arrived at the third stop-over of their journey, ['selvǝ] seem to have a clear idea of the path they are following, and their compass seems to direct them more and more towards their destination.
[E.R.]

mercoledì 21 febbraio 2018

Fuzz Orchestra - 10.02.2018 - Lumiere (Pisa)


Fuzz Orchestra - 10.02.2018 - Lumiere (Pisa)

Nella serata conclusiva del Festival di Sanremo il nostro Teatro Ariston è l’ex Cinema Lumiere a Pisa. Niente fiori, presentatori o vallette. Qui, per davvero, abbiamo musica italiana, che racconta l’Italia. Non può esistere band migliore della Fuzz Orchestra, per raccontarci il lato oscuro dello stivale (che si annida anche in una tranquilla cittadina di provincia come Pisa, come dimostra la delirante sparatoria del giorno precedente, con la quale un ventenne ha investito gli avventori di un bar, in puro stile poliziottesco). E non c'è palco migliore per la loro musica, se non quello di un ex cinema riadattato a sala da concerti. A maggior ragione se questo locale, nascosto nel cuore della città, ha ospitato per oltre un secolo pellicole d’essai e, per un certo periodo, film porno.

L’approccio della band milanese è crudo ed elegante al tempo stesso, come un film con Gian Maria Volonté, con la criminalità dei bassifondi che si mescola agli intrighi politici dei vertici. Violenza irrazionale e imprevedibile, atmosfera da anni di piombo, riff pesantissimi e quadrati, grondanti fuzz da tutti i coni dell’ampli (splendido il Simms Watts rosso di Luca Ciffo, che pare un tavolo di controllo di 2001: Odissea nello Spazio). Il trio produce una pressione sonora devastante, ma racconta la sua storia nera con classe e raffinatezza (Paolo Mongardi alla batteria è letteralmente ipnotico). Ma soprattutto con grande attenzione nella ricostruzione delle atmosfere, che risultano importanti tanto quanto gli intrecci matematici dei riff  e le bordate sabbathiane, nell'economia del racconto sonoro. I samples gestiti da Fabio Ferrario, che si destreggia tra tastiera, synth, vinili e musicassette, sono fondamentali come la nebbia di Milano Calibro 9 o come lo sguardo beffardo di Giulio Sacchi nell'indimenticabile finale di Milano Odia: la polizia non può sparare.

Con un set con molti pezzi dell'ultimo, splendido, Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi la Fuzz Orchestra ci fa ripiombare in un passato quanto mai attuale. A pochi giorni da elezioni in cui i fronti (neo)fascisti sembrano aver rialzato la testa, non sembra per niente romanzesco il racconto nero scritto dalla band milanese. 
[R.T.]


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Fuzz Orchestra - 02.10.2018 - Lumiere (Pisa)

In the final evening of Festival di Sanremo, our Teatro Ariston is the former Cinema Lumiere in Pisa. No flowers, hosts or TV assistants. Here, for real, we have Italian music, telling Italy. There can be no better band than the Fuzz Orchestra, to tell us about the dark side of our country (a dark side lurking also in a quiet provincial town like Pisa, as evidenced by the delirious shooting of the previous day in pure poliziottesco style). And there can not be a better stage for their music than that of a former cinema adapted to concert hall. Even more so if this place, hidden in the heart of the town, has hosted arthouse films for over a century and, for some time, porn movies.

The approach of the Milanese band is raw and elegant at the same time, like a movie with Gian Maria Volonté, with the crime of the slums mingling with political intrigues. Irrational and unpredictable violence, Years of Lead atmosphere, heavy solid riffs dripping fuzz from all the cones of the amp (gorgeous Luca Ciffo's red Simms Watts, looking like a control table of 2001: A Space Odyssey). The trio produces a devastating sound pressure, yet it tells its black story with class and refinement (Paolo Mongardi on drums is literally hypnotic). But above all paying great attention to the reconstruction of the atmospheres, as much important as the mathematical intertwining of riffs and the Sabbathian boulderish lines, in the structure of the sonic tale. Managed by Fabio Ferrario, who juggles keyboards, synths, vinyls and cassettes, samples are as fundamental as the fog in Milano Calibro 9 or Giulio Sacchi's mocking gaze in the unforgettable final of Milano Odia: la polizia non può sparare.

With a set with many songs from the latest, wonderful, Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi Fuzz Orchestra makes us sink back into a really contemporary past. A few days before elections in which (neo)fascist fronts seem to have raised their heads, the black story written by the Milanese band does not seem novelesque at all.
[R.T.]

lunedì 19 febbraio 2018

The Jesus Lizard - Goat


The Jesus Lizard - Goat
(Touch And Go, 1991)

E' il primo album dei Jesus Lizard di cui entro in possesso. Me lo passa un mio amico al mio primo anno di università. E ne resto assolutamente folgorata. La voce allucinata di David Yow ed i suoi testi deliranti. La chitarra stortissima di Denison e le ritmiche frastagliate e uncinanti di Sims e McNeilly. Quel mix perfetto di post-hardcore e noise che ti prende il cervello e ti rapisce e conduce in un mondo distante e distaccato da tutta la realtà "perfetta", incasellata ed accordata in cui muovi costantemente i tuoi passi. Trenta minuti di suoni e parole che se erano una rivoluzione nel 1991, non hanno perso neppure oggi la loro carica destabilizzante, perché ancora oggi hanno tutto il loro senso ed il luogo d'elezione in quell'underground da cui sono emersi, fatto di un'etichetta come la Touch And Go, di un produttore come Steve Albini e di una scena di musicisti insofferente a restrizioni espressive e di ogni altro tipo. E quando per l'ennesima volta stai ascoltando South Mouth e arriva quella pausa sospesa, storta e dissonante, rotta da quello stonato, riverberato e strascicato "Hey sometimes...", capisci che Goat è e resterà sempre una pietra miliare dei primissimi anni '90 ed un punto costante di riferimento per tanta musica degli anni a seguire.
[E.R.]
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The Jesus Lizard - Goat
(Touch And Go, 1991)

It's the first The Jesus Lizard album I listened to. A friend of mine gave it to me during my first year at university. And it was absolutely astonishing. David Yow hallucinated voice and his delirious lyrics. Denison crooked guitar and Sims-McNeilly jagged hooking rhythms. That perfect mix of post-hardcore and noise that catches your brain and enraptures you and leads you into a distant world, detached from all that "perfect", boxed up and tuned reality in which you constantly move your steps. Thirty minutes of sounds and words that were a revolution in 1991 and that have not lost even today their destabilizing power, because even today they have all their sense and place of election in that underground from which they emerged, made of a label like Touch And Go, a producer like Steve Albini and a scene of musicians intolerant of expressive restrictions and restrictions of any other kind. And when for the umpteenth time you are listening to South Mouth and here it is that suspended, distorted and dissonant pause, broken by that off-key, reverberated and shuffled "Hey sometimes ...", you realize that Goat is and will always be a milestone of the early 90s and a constant reference point for lots of music in the years to follow.
[E.R.]

giovedì 15 febbraio 2018

Capt Crunch and the Bunch - 27.01.2018 - Cafè Albatross (Pisa)


Capt Crunch and the Bunch - 27.01.2018 - Cafè Albatross (Pisa)

Stasera sono al Piper, è il 1965, e per la prima volta indosso la minigonna. Ah no! Siamo all'Albatross a Pisa, è il 2018, e per quanto fuori moda, non sono vestita come mia zia! Eppure, alla terza volta in meno di un anno dall'uscita del loro Crimine Beat, i Capt Crunch and the Bunch riescono ancora di più a trasportarmi indietro nel tempo, in un'epoca in cui garage e beat riempivano i locali "giovani" anche su e giù per il nostro stivale. Tutto questo senza alcuna sensazione di nostalgia revivalistica, perché il loro rock (melodico e ruvido al tempo stesso) possiede una personalità fresca e dirompente, sia nei pezzi originali, sia nelle (immancabili, visto il genere) cover - tra queste Ma beata te dei Primitives. E questo emerge senza dubbio anche dai testi, in italiano, sempre pungenti e sul pezzo e che, dal vivo, sembrano quasi dar vita ad un dialogo con il pubblico. Si sente la grezza onestà di musicisti che conoscono a fondo la lezione del (proto)punk dal quale provengono, soprattutto con una sezione ritmica a tre (batteria-basso-chitarra ritmica) capace di trasmettere groove e coinvolgere il pubblico. Un pubblico che si lascia trascinare volentieri tanto nei momenti più "morbidi" quanto in quelli più rumorosi o psichedelici, e ricambia calorosamente tutta l'energia che lo investe dal palco.
[E.R. + R.T.]

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Capt Crunch and the Bunch - 01.27.2018 - Cafè Albatross (Pisa)

Tonight I'm at the Piper, it's 1965, and for the first time I wear the miniskirt. Well, not exactly that! We are at the Albatross in Pisa, it's 2018, and for how much out-of-date I may look like, I'm not dressed like my aunt! Yet, at the third time in less than a year since the release of their Crimine Beat, Capt Crunch and the Bunch once again transport me back in time, in that era when garage and beat filled up the "cool" clubs also up and down our country. All this without any taste for revival, because their rock (melodic and rough at the same time) has got a fresh and disruptive personality, both in the original songs and in the (inevitable, given the genre) covers - among these Ma beata te by Primitives. And this undoubtedly emerges also from their lyrics, in Italian, always cutting and up to date and that, during the concert, seem to give rise to a dialogue with the audience. We can feel the raw outspokenness of musicians who are thoroughly familiar with the (proto)punk lesson from which they come, especially with a three-pieces rhythm section (drums-bass-rhythm guitar) capable of transmitting groove and engaging the audience. An audience that lets itself be carried away in the "softer" moments as in the noisiest or psychedelic ones, and warmly returns all the energy that overwhelms it from the stage.
[E.R. + R.T.]

lunedì 12 febbraio 2018

Dinosaur Jr – Green Mind


Dinosaur Jr – Green Mind
(Sire, Warner Bros, 1991)

L'indolenza al potere. La voce svogliata di J Mascis e la sua chitarra sciolta e rilassata escono dal circuito delle college radio proprio quando il fenomeno grunge (del quale J era stato fondamentale ispiratore) fa crollare la barriera di separazione tra musica underground e mainstream. Ma non è grazie a gloria riflessa che la band firma per una major e raccoglie le attenzioni del grande pubblico. Il merito sta nella capacità di Mascis di rappresentare con sincerità una generazione annoiata, cresciuta in una società agiata, capace di anestetizzare qualsiasi giovanile istinto di ribellione, come quella americana degli anni '80. Una generazione che si oppone passivamente agli ideali edonisti del periodo, attraverso autocompiaciuto distacco dalla collettività, chiusura in sé stessi, rassegnazione. Composto interamente da Mascis, nonostante sia il primo disco senza il basso di Lou Barlow, Green Mind mostra un desiderio comunicativo non più diretto esclusivamente verso l'interiorità. Mascis sembra accorgersi che esiste un mondo intorno a lui, e non sembra così disinteressato a manifestare la sua autocompiaciuta apatia. Sarà per una maggiore pulizia degli angoli sporchi di rumore dei primi dischi, o per una più esplicita sensibilità melodica, fatto sta che se Green Mind da una parte perde il fascino dell'imperfezione e dell'ingenuità degli album precedenti, dall'altra si eleva come uno dei dischi più rappresentativi del rock americano degli anni '90.
[R.T.]
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Dinosaur Jr – Green Mind
(Sire, Warner Bros, 1991)

Indolence got the power. J Mascis lazy voice and his loose relaxed guitar come out of the college radio circuit exactly when the grunge phenomenon (of which J had been one of the fundamental inspirations behind), breaks down the barrier of separation between underground and mainstream music. Yet it is not thanks to the reflected glory that the band signs for a major and gathers the attention of a big audience. The credit for this success lays on Mascis capability to represent with sincerity a bored generation, grown up in a wealthy society able to anesthetize any juvenile instinct of rebellion like the American one in the 80s. A generation that passively oppose the hedonist ideals of that era through self-satisfied detachment from the collectivity, self-enclosure, resignation. Entirely composed by Mascis, despite being the first album without Lou Barlow at the bass, Green Mind shows a communicative desire no longer exclusively directed towards the interior. Mascis seems to realize that there is a world around him, and he does not seem so disinterested in manifesting his self-satisfied apathy. It may be for a greater cleaning of those corners dirty with noise of the first records, or it may be for a more explicit melodic sensitivity, the fact is that if Green Mind on one hand loses the charm of the imperfection and ingenuity of the previous albums, on the other it rises up as one of the most representative records of 90s American rock.
[R.T.]

venerdì 9 febbraio 2018

Rancho Bizzarro – Rancho Bizzarro


Rancho Bizzarro – Rancho Bizzarro
(Argonauta Records, 2017)

Bizzarro davvero immaginarsi un rancho nella macchia mediterranea che avvolge le colline livornesi. Una fattoria ad un passo dal frastuono della città, isolata in mezzo a fitti cespugli di ginepro e ginestra. Io mi immagino che la musica dei Rancho Bizzarro provenga da un posto simile. Mi immagino jam session rilassate, allungate da alcolici a base di piante locali e nuvole di fumo a base di piante importate. Perché se il loro desert rock è importato dal Rancho più famoso della scena stoner californiana (quello de la Luna), negli intrecci strumentali della band è presente anche una componente indigena. Oltre ai rocciosi riff stoner e alle polverose dilatazioni psichedeliche, tipicamente americane, nelle fluide strutture dei sette pezzi del loro disco d’esordio ci sono il vento caldo di Scirocco e la sabbia del mare. Osservare il sole rosso che tramonta sul mare nostrum non sarà come guardare un crepuscolo tra i cactus nel deserto del Mojave, ma i Rancho Bizzarro ci aiutano ad avvicinare le due esperienze.
[R.T.]
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Rancho Bizzarro – Rancho Bizzarro
(Argonauta Records, 2017)

Truly bizzarre to imagine a ranch in the middle of the Mediterranean scrub surrounding Livorno countryside and hills. A farm one step away from the hubbub of the city, isolated among dense juniper and broom bushes. I imagine that Rancho Bizzarro music comes from such a place. I imagine relaxed jam sessions, dilated by alcohol made with local plants and clouds of smoke from imported plants. Because if their desert rock is imported from the most famous Rancho of the Californian stoner scene (the one de la Luna), in the instrumental intertwinings of the band there is also an indigenous component. In addition to the typically American rocky stoner riffs and dusty psychedelic dilatations, in the fluid structures of the seven tracks of their debut album there are the hot wind sirocco and the sea sand. Watching the red sun setting on our Mediterrean Sea might not be like looking at a twilight among the cacti in the Mojave desert, but Rancho Bizzarro help us bring the two experiences together.
[R.T.]

mercoledì 7 febbraio 2018

Electric Wizard – Wizard Bloody Wizard


Electric Wizard – Wizard Bloody Wizard
(Witchfinder Records, Spinefarm Records, 2017)

Tutto è destinato a divenire polvere. Prima o poi, inevitabilmente, tutto si prosciuga e si sgretola come fango secco. La melma sonica degli Electric Wizard aveva già attraversato questo processo ai tempi di Witchcult Today, disidratando il suo grondante sludge cosmico in un secco doom metal primordiale. Ai tempi quella scheletrica essenzialità suonò tanto sconcertante per i fan del lato più estremo della band quanto sconvolgente per un’intera generazione di musicisti pronti a trarne ispirazione. Dopo esser ricaduto in un’overdose di droghe pesanti e bad trip spaziali con i due dischi successivi, lo stregone elettrico scende nuovamente nella cripta e si avventura ancor più in profondità, per respirare l’aria viziata del rock occulto, quando questo non si chiamava ancora doom. Avvolto da ragnatele e coperto da uno spesso strato di polvere, Wizard Bloody Wizard suona ovattato e nebbioso come un disco di heavy psych sotterraneo dei primi anni 70. Una sezione ritmica decisamente più morbida di quelle del passato accentua la sensazione di trovarsi immersi in una nube di marijuana, mentre un tetro blues psichedelico risuona tra le pareti di pietra (Mourning of the Magicians). Il fatto che le profondità della cripta siano abitate oggigiorno da molti altri stregoni (alcuni dei quali, come gli Uncle Acid, con una più profonda e matura sensibilità melodica) non toglie il diritto a Jus Oborn e ai suoi discepoli di far parte del sabba oscuro, da loro stessi riportato in auge con il disco del 2007. Lo stregone è invecchiato, incartapecorito e impolverato, ma se c’è una messa nera da celebrare, sarà certamente il suo sacerdote.
[R.T.]
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Electric Wizard – Wizard Bloody Wizard
(Witchfinder Records, Spinefarm Records, 2017)

Everything is doomed to become dust. Sooner or later, inevitably, everything dries up and crumbles like dry mud. Electric Wizard sonic slime had already gone through this process at the time of Witchcult Today, dehydrating its dripping cosmic sludge in a dry primordial doom metal. At that time that skeletal essentiality sounded so disconcerting for fans of the extreme side of the band as shocking for an entire generation of musicians ready to draw inspiration. After falling into an overdose of heavy drugs and space bad trips with the two following albums, the electric sorcerer descends again into the crypt and ventures even deeper, to breathe the stale air of occult rock, when this was not yet called doom. Wrapped in spiderwebs and covered with a thick layer of dust, Wizard Bloody Wizard sounds muffled and foggy like an underground heavy psych record from the early 70s. A rhythmic section much softer than those of the past accentuates the feeling of being immersed in a cloud of marijuana, while a bleak psychedelic blues resounds among the walls of stone (Mourning of the Magicians). The fact that the depths of the crypt are inhabited today by many other sorcerers (some of whom, like Uncle Acid, with a deeper and more mature melodic sensitivity) does not take away the right of Jus Oborn and his disciples to be part of the dark Sabbath, by themselves brought back into vogue with their 2007 album. The wizard is aged, shrivelled and dusty, but if there is a black mass to be celebrated, he will certainly be its minister.
[R.T.]

lunedì 5 febbraio 2018

Nirvana - Nevermind


Nirvana - Nevermind
(DGC, Sub Pop, 1991) 

Nella storia del rock c'è un "pre" e un "post" Nevermind. Dopo la sua pubblicazione, il rock alternativo abbandona la scena indipendente e si ritrova faccia a faccia con le contraddizioni di questo cambiamento. L'eterno scontro fra musica indipendente e musica mainstream finisce nel settembre del 1991, quando il secondo album dei Nirvana racchiude in sé entrambi questi mondi. Alla fine degli anni '80 le major iniziano ad interessarsi alla scena musicale indipendente (dimostrazione di questa nuova tendenza è la pubblicazione da parte della Geffen dei dischi dei Sonic Youth) e si rendono conto che la musica pesante e rumorosa di Seattle sarà la "next big thing" che alimenterà i desideri degli adolescenti (gli album di Soundgarden ed Alice In Chains furono pubblicati da major) e la loro insoddisfazione per il "sogno americano" e l'individualismo degli anni '80. In quei tempi c'era un crescente rifiuto delle emozioni sintetiche e della ribellione iper-muscolare, così la musica dei Nirvana ebbe l'opportunità di divenire il simbolo di una rivoluzione culturale. E così fu!
[R.T.]

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Nirvana - Nevermind
(DGC, Sub Pop, 1991)

In rock music history there is a “pre” and a “post” Nevermind. After its release, alternative rock abandons independent scene and faces the contradictions of this change. The everlasting clash of indie and mainstream music ends in September 1991, when Nirvana second album incorporates both these worlds. At the end of the 80s, majors begin to take an interest in indie musical scene (demonstration of this new tendency is Geffen publication of Sonic Youth albums) and they realize that Seattle heavy noisy music will be the “next big thing” to feed teenagers desires (Soundgarden and Alice in Chains albums were published by majors) and their dissatisfaction with the “American dream” and the individualism of the 80s. In those days there was an increasing denial of synthetic emotions and hyper muscular rebellion, so Nirvana music had the opportunity to become a symbol of a cultural revolution. So it was, indeed!
[R.T.]

giovedì 1 febbraio 2018

Monolord - Rust


Monolord - Rust
(RidingEasy Records, 2017)

Se Empress Rising è stato un esordio col botto e, ad un solo anno di distanza, Vænir aveva confermato (e accresciuto) il valore della band, Rust è l'ulteriore progressione e consacrazione dei Monolord come una delle più interessanti realtà doom attualmente in circolazione. Fermi i capisaldi - il basso costantemente distorto di Mika Häkki, la batteria magistralmente pesante e cadenzata di Esben Willems e la voce spaziale, satura di effetti, di Thomas Jäger - il trio svedese punteggia il suo terzo capitolo di significativi elementi di novità. Ad esempio l'intro di tastiera della title-track, che suona veramente inaspettato. O il violino nell'outro di Wormland, ad immalinconire i possenti, ma comunque sempre carichissimi, riffs tipici della band. E più in generale si può rilevare come la melodia acquisisca importanza e diventi componente assolutamente in primo piano nelle sei canzoni dell'album. Il risultato è un'ora di doom granitico e monolitico, costellato di aperture e divagazioni psych, impreziosito da inserzioni quasi acustiche e arrangiamenti ancora più ricercati che in passato. Summa di tutto questo, la conclusiva At Niceae (quasi una mini-suite con i suoi oltre 15 minuti), in cui trovano spazio tutte le molte sfaccettature e peculiarità della band di Göteborg e del loro ultimo album. Emblema del doom contemporaneo, con tutte le radici ben piantate in ciò che l'ha preceduto, e rami protesi verso nuovi orizzonti (come sembra suggerire la chiusura in acustico, solo chitarra e voce). 
[E.R.]
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Monolord - Rust
(RidingEasy Records, 2017)

If Empress Rising was an astonishing debut and, just one year later, Vænir had confirmed (and increased) the value of the band, Rust is the further progression and consecration of Monolord as one of the most interesting doom reality currently around. Undisputed its cornerstones - the constantly distorted bass by Mika Häkki, the masterfully heavy and rhythmically marked drums by Esben Willems and the space voice, saturated with effects, by Thomas Jäger - the Swedish trio punctuates its third chapter with significant new elements. For example, the keyboard intro of the title track, which sounds really unexpected. Or the violin in the outro of Wormland, growing the melancholy of the mighty, yet always ultra-groovy, riffs typical of the band. And more generally, it can be seen that melody has become increasingly important, an absolutely foreground component in the six songs of the album. The outcome is an hour of granitic monolithic doom, dotted with psych openings and ramblings, embellished with almost acoustic insertions and arrangements even more refined than in the past. Summa of all this, the final At Niceae (almost a mini-suite with its more than 15 minutes), in which they find space all the many facets and peculiarities of the band from Göteborg and its latest album. Emblem of contemporary doom, with all the roots well planted in what preceded it, and branches stretched towards new horizons (as it seems to suggest the acoustic closure, only guitar and voice).
[E.R.]